Quando scompare un anziano uomo di stato è sempre un florilegio di elogi sulla sua carriera politica e sul suo percorso umano. Difficile non sia così anche per Bob Dole, scomparso a 98 anni il 5 dicembre.

Dole era un veterano della Seconda guerra mondiale, nella quale è stato ferito gravemente sull’Appennino bolognese da un mortaio tedesco, ferite che hanno richiesto sette complessi interventi e quasi due anni di ricovero.

Una lunga carriera in politica, eletto nel nativo Kansas prima come deputato poi come senatore, fino a diventare il leader del gruppo nel 1984. In quella veste aveva collaborato molto con i suoi colleghi democratici tanto che, una volta abbandonata la politica attiva dopo la sua sconfitta nel 1996 contro l’uscente Bill Clinton, aveva fondato nel 2003 un istituto per portare lo spirito bipartisan in politica all’interno dell’Università del Kansas.

Per questo motivo molti commentatori si erano stupiti di quando, nel 2016, si era distinto dagli altri ex candidati repubblicani alla presidenza per aver sostenuto Donald Trump senza alcuna riserva, recandosi alla convention di Cleveland, in Ohio, per offrire il suo sostegno al candidato del Gop mentre Mitt Romney, John McCain e i membri della famiglia Bush si erano distaccati e criticavano apertamente le posizioni estreme di Trump.

Al contrario, Dole si era presentato, pur dicendo che nessun altro candidato che aveva conosciuto era simile a The Donald, da lui definito «un animale completamente diverso». Non solo: aveva aggiunto che «Trump sarebbe stato un grande presidente».

La convention del 1964

Bisogna andare in profondità per capire che le radici del trumpismo risalgono alla prima convention repubblicana frequentata dall’allora deputato Dole: quella del 1964.

All’epoca si affermò un candidato che si distaccava dalla prevalente linea di moderato conservatorismo con cui i repubblicani avevano gestito il partito sin dall’epoca di Roosevelt: il senatore dell’Arizona Barry Goldwater.

Quest’ultimo incarnava una netta rottura con il New Deal, recuperando la retorica del “self made man” della frontiera, ostacolato nella sua crescita personale ed economica da un welfare state troppo pervasivo, popolato di burocrati nutriti con i soldi delle tasse sulle piccole e medie imprese.

Pur tenendo una posizione sfumata sull’immigrazione, favorevole all’America come «rifugio per i dissidenti» la sua retorica sul crimine che rendeva insicure «le nostre case, le nostre chiese e i parchi gioco», rilanciata nel discorso di investitura, pose le basi per un matrimonio tra il vecchio partito repubblicano pro business del nord con i democratici segregazionisti del sud, che si distaccavano sempre più dalla loro tradizionale affiliazione politica.

Lo stesso Dole nel 1976 fu scelto come vice di Gerald Ford per sostituire il moderato vicepresidente Nelson Rockfeller, per compiacere quella che era una destra in crescita, alimentata dalle ansie derivanti dal periodo dell’integrazione razziale, della fine della guerra del Vietnam e dalla disgregazione sociale favorita dai movimenti giovanili e dal crescente uso di droghe.

Pazienza se in realtà anche nei “tranquilli anni Cinquanta” l’uso di droghe fosse diffuso nella California bene: anche allora, però, gli immigrati messicani venivano accusati di essere «mercanti di morte».

La campagna pretrumpiana

Nella campagna del 1996, infine, si creò uno strano matrimonio che fu la cifra politica dei repubblicani pretrumpiani: da un lato un candidato soft nei modi che sapeva rivolgersi in modo largo all’America tutta, con una retorica presidenziale da “serbatoio del Bene”, tanto da strappare il discorso scritto dall’autore conservatore Mark Helprin e sostituirlo con un secondo più conciliante dove «affermava che in politica un compromesso onorevole non è un peccato».

D’altro canto però, il principale avversario di Dole alle primarie, Pat Buchanan, aveva una retorica pretrumpiana contro «gli immigrati irregolari» e la «femminista radicale» Hillary Clinton.

Questo si rispecchiò nell’agenda elettorale, ancora disponibile sul sito della campagna elettorale 1996, uno dei primi a essere creati. Bob Dole avrebbe impedito a «300mila immigrati» di varcare il confine, «impedendo loro di raschiare via soldi delle nostre tasse» e «mettendo in pericolo la nostra sicurezza».

Costoro, ovviamente, non avrebbero avuto diritto «ad avere accesso ai servizi governativi e alla scuola». Proposta confermata anche dalla moglie Elizabeth, candidata alla presidenza nel 2000.

Una figura come Dole fa riflettere sulle origini profonde del fenomeno trumpiano, alimentato principalmente da quel “risentimento bianco” che un tempo trovava casa anche nei democratici del sud e in alcuni settori sindacali preoccupati dal dumping salariale degli irregolari.

Va detto che Dole non ha condiviso affatto la battaglia di Trump per mettere in discussione il risultato delle elezioni del 2020, pur ritenendosi a suo modo ancora “trumpiano”.

Anche senza The Donald, quindi, la rabbia dell’America che Dole ha incarnato troverà nuovi rappresentanti. Non necessariamente concilianti come lo scomparso senatore.

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