Dietro le tensioni che scuotono il centro della chiesa cattolica e gli atti che rovesciano stili antichi c’è un cambio di prospettiva sul rapporto fra governo e sovranità del pontefice: un ritorno di temporalità, paradossale nel papato evangelico di Francesco, dalle conseguenze imprevedibili.

Quando Pio IX perse l’ultimo lembo del potere temporale era convinto che fosse stato perpetrato un sacrilegio. Da subito avrebbe iniziato a lamentarsene sdegnato delle libertà concesse agli ebrei («questi cani», diceva un suo manifesto contro l’apertura del ghetto), delle licenze concesse ai protestanti: ma soprattutto della lesione del suo «principato temporale», che era «voluto da Dio».

Solo un secolo dopo Paolo VI dirà il contrario: che quel potere era caduto «provvidenzialmente». Perché esso aveva segnato il papato con atti che, per quanto usuali per le corone coeve, suscitavano ribrezzo. Quando Carducci descrive il risveglio di Pio IX la mattina del 1867 in cui vengono ghigliottinati Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti (Il gran prete quel di svegliossi allegro, / Guardò pe’ vaticani / Vetri dorati il cielo umido e negro, / E si fregò le mani) esprime con toni pulp un sentimento anticlericale reale. E ogni volta che si racconta (lo rifarà presto Marco Bellocchio) la storia di Edgardo Mortara, il bambino ebreo di sei anni, rapito ai genitori dagli sbirri papalini, dopo che una serva aveva confessato di aver battezzato, si inorridisce davanti ad un atto pur perpetrato in un continente in cui l’antisemitismo era ritenuto comune e accettato.

Perdere le temporalità su cui riposavano quegli atti era, per il papa, davvero una liberazione. Il che non significava accontentarsi di “guarentigie” unilaterali, ma pretendere un territorio simbolico: «Non per avere una sicurezza materiale, ma per avere una base su cui riposi la sovranità». Fallite le trattative dopo la Grande guerra, sarà il 1929 a riconoscerlo, con una conciliazione di cui Pio XI vede quasi tutte le ambiguità fasciste, ma che dà «quel tanto di corpo che serve a sostenere un anima».

Formula celebre con cui si identifica uno stato anomalo: con una polizia straniera (italiana) che fa gli arresti su piazza san Pietro; batte moneta per i collezionisti; stampa francobolli per una posta che non ha; fonda una radio globale e fa finanza in un contesto che non prevede la libertà di stampa e non ha vita economica. Uno stato che dal 1929 ha una Legge fondamentale che nel 2000 papa Giovanni Paolo II ripubblica, con poche varianti e un’art. 1 che è uno sberleffo a Montesquieu: «Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario».

In quell’anno Wojtyła lascia infatti intatto il postulato che rende plausibile una monarchia assoluta elettiva in anni nei quali la dottrina sociale insegna il contrario: il postulato cioè che lo stato della città del Vaticano ha un solo cittadino – il papa – che coincide col titolare della monarchia elettiva.

È questa prospettiva che ha preso a cambiare da qualche anno, cercando di dotare un corpo troppo piccolo di istituzioni troppo rigide, con conseguenze di lungo periodo.

Ancora ai tempi dell’affaire Ambrosiano, Nino Andreatta andò in parlamento a chiedere conto al papa, in forza di quel principio monarchico, delle azioni di Paul Marcinkus, capo dello Ior, ai danni dei risparmiatori: su Andreatta cadde un veto vaticano, rispettato da tutti fino al primo governo Prodi; sulle finanze vaticane si impose la prudente e occhiuta vigilanza del cardinale Casaroli. Ma nessuno pensò ad una giustizia “papalina”, più giusta o più mite o più severa di quella che all’Italia fu impedita.

Poi sono arrivati nuovi scandali finanziari. E con quelli i principi internazionali sulle procedure antiriciclaggio che hanno imposto la creazione di nuovi organi di vigilanza che in uno stato vero – con grandi burocrazie e grandi figure – potevano funzionare; ma che nella corte pontificia hanno avuto un esito paradossale.

Nuovi ladri e ladruncoli sono apparsi sull’orizzonte della gestione delle risorse finanziarie vaticane, che sono il surrogato del potere temporale e la tutela dell’indipendenza della sede apostolica. E insieme a loro maggiordomi con la fotocopiatrice, nuovi scandali. E poi, dopo il conclave del 2013 che voleva metter ordine in un disordine anche spirituale, sono arrivate nuove commissioni e nuovi organi: il cardinale Pell con i suoi semplicismi eretti in segreteria; società di consulenza, vari esemplari sia maschili che femminili di consulenti finanziari.

Sicchè, col lodevole scopo di creare un sistema finanziario “trasparente” si sono costruite regole, procedure, commissioni che dovrebbero far sembrare la città un vero stato e che invece hanno aumentato l’effetto colabrodo. Senza grandi esiti, se ogni sei mesi un licenziamento o le confessioni di un licenziato o un arresto confermano che dei dieci comandamenti è il settimo (non rubare) quello più difficile da memorizzare.

Nel contempo (anche per mostrarsi energici davanti ai crimini di pedofilia del clero) sono stati resuscitati organi di una giustizia amministrata nel nome del papa-re: il che ha portato all’imbarazzante processo giornalisti, colpevoli di aver scovato fonti o furbe o indiscrete o tutt’e due. E ha creato distorsioni come quella del recente vademecum sugli abusi sessuali, che incoraggia i vescovi (dunque anche quello di Roma), a prestare attenzione alle denunce anonime: il che avrà effetti devastanti ovunque, dalla vita delle diocesi a quella del conclave.

La gendarmeria vaticana che doveva occuparsi di piccole miserie di chierici ha provato a diventare una polizia e una  intelligence. E dato che non è né una polizia né una intelligence ha consegnato alle polizie vere e alle vere intelligence che le forniscono il know how le chiavi di un riserbo che, quando viene violato, produce effetti forse giusti o forse sbagliati ma sempre precipitosi. Per poi tornare sempre là, al papa, a cui si rimette, decisione e rischio.

Sono tante le cose che, nel governo centrale della chiesa, sarebbe urgente fermare: le faide, le indiscrezioni, le vanità, le ruberie. Ma bisogna anche fermare l’illusione che queste cose cessino costruendo un piccolo stato di polizia e di gole profonde, stagionate e neo-assunte. Il solo farmaco possibile è il Vangelo: che, come’è noto, non è un diserbante per la zizzania, ma un modo di comprenderla.

© Riproduzione riservata