«Credo che un fondatore debba mostrare con un atto di distacco che la comunità non gli appartiene perché essa resta comunità del Signore». Sulle pagine de L’Osservatore Romano del 28 gennaio 2017 così Enzo Bianchi scriveva sulle sue dimissioni dalla comunità che aveva fondato sulla Serra d’Ivrea negli anni Sessanta. Sono passati quattro anni e non è bastata l’elezione del nuovo priore, Luciano Manicardi, pienamente riconfermato nel 2019, per rendere effettivo il passaggio di autorità.

Con un colpo senza precedenti, negli affari di Bose è così intervenuto il Vaticano con un decreto singolare emesso esattamente un anno fa: il 13 maggio 2020, il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, disponeva che Bianchi lasciasse Bose a tempo indeterminato. Il documento pontificio è stato diffuso dal blog Silere Non Possum, ed esprime in realtà tutta la gravità che giustificherebbe una decisione tanto drastica nei confronti dell’ex priore.

Allontanare lo scandalo

Va ricordato che il decreto singolare datato 13 maggio 2020 è stato approvato in forma specifica dal papa: si tratta, cioè, di un atto non appellabile per volontà dello stesso pontefice e, quindi, esclude la questione di un eventuale ricorso. Per la Santa sede, Bianchi «ha mostrato di non aver rinunciato effettivamente al governo (…). Si è posto al di sopra della regola della comunità e delle esigenze evangeliche da esse richieste, esercitando la propria autorità morale in mondo improprio, irrispettoso e sconveniente nei confronti dei fratelli della comunità, provocando lo scandalo (…). Un precedente tentativo mirante a ristabilire pace e concordia attraverso indicazioni spirituali ed esortazioni morali non ha dato purtroppo i risultati sperati, anzi la situazione si è progressivamente aggravata». La frequente ricorrenza del lemma «grave» nel documento lascia intendere una situazione particolarmente seria, come conferma la menzione dello scandalo provocato dal comportamento all’ex priore. Verrebbe da chiedersi al di sopra di quali punti della regola comunitaria si sarebbe posto Bianchi: i dettagli, non noti pubblicamente, sono contenuti nelle deposizioni rilasciate dai membri della fraternità di Bose al delegato pontificio, il canossiano Amedeo Cencini, in visita tra il 2019 e il 2020.

Salvare la comunità

Con l’intervento diretto, la Santa sede ha puntato a salvaguardare la comunità stessa: tra i compiti affidati al delegato pontificio, c’è, infatti, quello di «sostenere il legittimo priore in carica». Cencini non è nuovo a realtà difficili. Il canossiano nel 2012 ha svolto il ruolo di Commissario pontificio a Villaregia, deponendo i fondatori Prandin e Corona, colpevoli di abusi. Bose è un caso diverso ma è plausibile che, se il problema fosse stato nella gestione di Manicardi, la Santa sede lo avrebbe deposto e Cencini avrebbe agito anche a Bose come Commissario. Al contrario, il delegato si è avvalso di un aiuto esterno per accompagnare la comunità. Si tratta dello psicoterapeuta don Enrico Parolari e della pedagogista Anna Deodato. Quest’ultima è nota per aver accompagnato donne consacrate che hanno subìto un abuso sessuale in comunità. Nel suo libro Vorrei risorgere dalle mie ferite. Donne consacrate e abusi sessuali (Edb, 2016), figura anche un contributo dello stesso Parolari sul tema degli abusi. Piuttosto che mettere in dubbio le figure scelte dal delegato pontificio in accordo con la Santa sede, converrebbe chiedersi perché è stato richiesto l’ausilio di due formatori nel campo della psicologia.

L’ombra degli abusi

Chi associa Bose ad abusi di potere è il gesuita Alejandro Labajos. Il religioso spagnolo fa menzione di Bianchi sul numero di settembre della Vida Nueva, parlando di abusi di potere e di coscienza nella vita consacrata: «Il comunicato imposto dalla Santa sede parla di una situazione tesa e problematica riguardo all’esercizio dell’autorità del fondatore, alla gestione del governo e al clima fraterno. Tuttavia, forse anticipando lo scandalo, non parla di abusi, sebbene ci siano vittime del potere violento del fondatore e del suo ambiente», scrive. Labajos conosce la comunità di Bose, vi ha trascorso qualche mese. Contattato via email, non ha mai risposto. Ha di recente parlato di formazione delle persone chiamate all’esercizio dell’autorità per scongiurare abusi di potere, l’arcivescovo José Rodriguez Carballo, il segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che un anno fa era a Bose assieme a Cencini per notificare il decreto singolare. Carballo ha avuto sempre contatti amichevoli con Bianchi e questo depone a favore della valutazione espressa dalla Santa sede. A ciò si aggiunge l’abbadessa di Blauvac, Anne-Emmanuelle Devêche, in visita fraterna a Bose nel 2014 su invito di Bianchi, e tornata come visitatrice apostolica assieme a Cencini nel 2019. Entrambi hanno trascorsi favorevoli con Bianchi, ma hanno pienamente condiviso le disposizioni del decreto.

Prove di autonomia

Per rendere effettivo l’allontanamento dell’ex priore, la comunità di Bose, d’accordo con la Santa sede, ha concesso a Bianchi la sede di Cellole San Gimignano, una pieve in provincia di Volterra di proprietà della comunità. Negli ultimi lavori di ristrutturazione era stato lo stesso ex priore ad averla modellata eleggendola a luogo del suo buen retiro, salvo poi rinunciarvi quando la richiesta di trasferirsi è giunta dal delegato pontificio. Dopo questo rifiuto, nelle ultime settimane Cellole, che nel frattempo era stata sguarnita, è ritornata una fraternità a carico di Bose, ma con prospettiva di autonomia. Al momento, infatti, la occupano quattro membri della comunità, che hanno preferito distaccarvisi. I loro nomi, Adalberto, Dario, Emiliano e Valerio, compaiono in calce a una lettera di gratitudine indirizzata a tutta la comunità, per una «scelta che coinvolge non solo noi presenti in questa terra toscana ma tutti i fratelli e le sorelle della comunità monastica di Bose che hanno offerto e accolto unanimemente questo nuovo inizio»: parole che non scriverebbero degli “esiliati”, come è stato scritto. Il decreto singolare non è solo destinato all’ex priore, ma anche a tre membri della fraternità: Goffredo Boselli, Lino Breda, Antonella Casiraghi, allontanati perché «fanno riferimento esclusivo a fratel Enzo Bianchi e non riconoscono, di fatto, l’autorità del legittimo priore in carica, ostacolandone gravemente l’esercizio», favorendo un «clima di estrema tensione e divisione». Scorrendo i provvedimenti ad personam emessi dalla Santa sede, salta all’occhio quello riservato a Goffredo Boselli per il quale viene aggiunto un punto ulteriore, (n. 15): «Fr. Goffredo Boselli non potrà risiedere nello stesso domicilio di Fr. Enzo Bianchi e dovrà interrompere i contatti con lui». Perché un documento pontificio specifica tassativamente che Bianchi e Boselli devono interrompere qualsiasi contatto? Sarà rispettata questa clausola, ora che l’ex priore ha reso noto che si recherà a Torino, città in cui temporaneamente vive anche Boselli?

Un nuovo statuto

Chi dall’esterno critica l’operato del priore di Bose, dichiara che lo statuto in preparazione modelli una figura del priore più autoritaria. Va però ricordato che l’esigenza di un nuovo statuto risale ai tempi della visita fraterna di Van Parys e Devêche. Lo ricorda Bianchi stesso: «Alla fine di quella visita intendevo dimissionare, ma i visitatori mi hanno chiesto di restare per portare a compimento il nuovo statuto», cosa avvenuta a fine 2016. Con l’intervento della Santa sede è emersa un’esigenza analoga, ma con lo scopo di dare a Bose un ordinamento adatto a un’organizzazione religiosa. Finora Bose è rimasta un’associazione privata di fedeli. Oggi, rintracciando i segni del carisma che la chiesa vuole preservare, Roma chiede alla comunità di strutturarsi in modo più adeguato alla sua natura di vita monastica ecumenica: «La dimensione ecumenica che vi caratterizza e il vostro anelito operoso per l’unità dei cristiani sono tesoro prezioso che la chiesa vuole custodire, vegliando sulla sua autenticità e fecondità», ricordava papa Francesco nella lettera inviata in occasione del 50esimo anniversario della fondazione di Bose e lo ribadiva nella lettera al priore Manicardi e alla Comunità il 12 marzo scorso. Non proprio un tentativo di demolire Bose. A un anno dal decreto singolare, Bianchi è ancora a Bose: «Gli anziani non si fidano di passare la mano perché spesso loro stessi non hanno un indirizzo preciso da indicare ai successori. E così temono, forse a ragione, che i giovani finiscano per dissipare quell’eredità». Parole dell’ex priore che spiegano il precario equilibrio fra autorità e carisma.

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