Un tweet. L’account è quello di Amnesty International, il contenuto riguarda la storia di Yasaman Aryani, ragazza iraniana di 24 anni, incarcerata un anno fa per aver esortato le donne a decidere per se stesse riguardo l’obbligo di indossare il velo. Non riuscivo a ricordare la storia – chi è questa Yasaman? E perché non è famosissima? Perché non se ne parla?

Ho cercato. Le poche informazioni che trovo sono sulle pagine di Amnesty e del Nobel Women Iniziative, una associazione formata da cinque donne premi Nobel, da Rigoberta Manchu a Shirin Ebadi, il cui scopo è promuovere, attraverso la visibilità delle fondatrici, «un femminismo che sia lotta contro militarismo, guerre e violenza».

Un fiore bianco

Era l’8 marzo del 2019, quando Yasaman Aryani e sua madre sono salite su una carrozza per sole donne della metropolitana di Teheran. Qualcuno girò un video, nel quale si vede Yasaman, vestita di un impermeabile rosso vivo e un rossetto di uguale colore, che estrae dalla sua cesta un fiore bianco, lo porge a una donna col velo, le bacia la guancia e urla «Buona giornata della donna». È un video bellissimo; è gioia pura. I volti delle altre donne tradiscono la loro difficile condizione; una donna matura non riesce a non sorridere, un’altra è terrorizzata, una terza nasconde la sua paura dietro una espressione scettica. Hanno tutte il velo. Yasaman – che è con sua madre e un’altra donna – no. Ha bellissimi capelli corti e rossicci, e uno sguardo monello che ti fa pensare a una Zazie di un altro mondo. È raggiante. Basterà questo per farla arrestare, poco più di un mese dopo e farla rinchiudere nella prigione di Qarchak Prison con una condanna a sedici anni di reclusione.

La prigione di Quarchak, ovviamente, viola ogni possibile diritto. Secondo quanto riporta il Women Nobel Iniziative, è una specie di terribile supplizio. Yasaman è stata tenuta a lungo in isolamento, le è stato proibito di avere contatti con i familiari e minacciata di ritorsioni sugli stessi se non avesse realizzato un video di pentimento nel quale ammettere di essere stata «incoraggiata e finanziata da agenti stranieri». Yasaman non l’ha fatto, le sue condizioni e quelle delle altre prigioniere e di numerosi bambini non sono migliorate; il cibo è scarso e di pessima qualità, la situazione sanitaria è estrema e il Covid è fuori controllo. Molte delle recluse hanno manifestato gravi segni di malattia mentale, in special modo sono diventate molto diffuse le ferite autoinflitte. Come se quei corpi già vilipesi, andassero ulteriormente puniti. Una lettera scritta da duecento prigioniere al direttore delle carceri iraniane è rimasta, ovviamente, senza risposta.

Invisibile tra gli invisibili

Oltre questo, ben poche notizie. È come se non fosse mai accaduto, come se Yasaman non esistesse, l’ennesima invisibile tra gli invisibili, del resto non ci si può occupare di ogni caso di violazione di un diritto del quale siamo a conoscenza, direbbe il saccente. Eppure sono sorpreso. Perché nessuno scrive di lei? Sembra oltretutto avere le caratteristiche ideali per diventare una paladina dei diritti delle donne… terza, quarta pagina di Google e ancora niente; non il Guardian, né alcuna testata americana. Per non parlare di quelle italiane. Forse, mi chiedo, dipende dal fatto che la storia di Yasaman non è la tipica storia di attivismo politico, è una semplice cittadina che ha fatto quel che riteneva giusto in un paese governato da una dittatura ferocemente sessista. E per questo, nel silenzio generale, è stata sbattuta in galera.

Nel suo saggio Come gli stregoni hanno conquistato il mondo, ancora incredibilmente attuale se non addirittura profetico, Frances Wheen individua proprio nella rivoluzione Khomeinista del 1979 il primo, esplosivo, segno della deriva irrazionalista che sul finire del secolo ha di fatto travolto il mondo, arrivando in quarant’anni a toccare le democrazie occidentali, conquistate, basti l’esempio di Trump, dalla creazione di un punto cieco e ottuso di dimensioni crescenti. L’irrazionale, per l’appunto. Quella rivoluzione riportò l’Iran indietro di decenni. Da ormai più di quarant’anni le donne iraniane lottano, sole, contro chi vuole decidere per loro, limitando i loro diritti e imponendo divieti e obblighi di ogni sorta; lottano contro un nemico terribile e smisurato: la sharia. La religione – l’irrazionale per definizione – che diventa legge. Eppure, in questo panorama che appare senza speranza ci sono le Yasaman.

Masih Alinejad

Entro in contatto con Masih Alinejad, giornalista e attivista politica iraniana. Oggi vive a New York, le sarebbe impossibile fare il suo lavoro nel suo paese. Masih conosce bene Yasaman. Di seguito un estratto della nostra conversazione: 

Masih, cosa rappresenta Yasaman?

Yasaman è una vera eroina, una delle donne che meglio rappresentano la rivolta contro il regime sessista iraniano. È la prima figlia di una famiglia della media borghesia di Teheran, è una ragazza che ha sempre lavorato nell’arte dopo aver studiato teatro. Ha messo passione in tutto ciò che ha fatto, trasferendola dall’arte alla lotta politica, quando ha capito che non avrebbe mai potuto esprimersi liberamente.

Quando è entrata in contatto con lei la prima volta?

Nel 2014, quando lanciai la campagna My Stealthy Freedom contro il velo obbligatorio. Mi mandava messaggi in cui mi parlava della sua passione per il teatro e di come soffrisse il dover indossare il velo, che non corrispondeva alla sua identità. Iniziò presto a mandarmi dei video di lei che camminava a capo scoperto nelle strade più frequentate di Teheran. Naturalmente ciò in Iran è un reato per il quale si può finire in carcere. Ma lei era determinata, non aveva ancora vent’anni e già lottava, invitando le donne a unirsi alla sua lotta in quelle camminate. Poco dopo mi mandò un altro video: andava in bicicletta a capo scoperto: due reati, visto che in Iran è vietato alle donne usare la bicicletta. Il terzo video era bellissimo; mostrava Yasaman che ballava senza il velo in pubblico, con un sorriso di meraviglia e gioia incontenibile. Naturalmente anche danzare è un reato nella Repubblica islamica.

Come reagiva quando riceveva questi video?

Iniziai a metterla in guardia suggerendole, prima di condividerli sui social, di oscurare il suo volto, in modo che non potesse essere riconosciuta dalle autorità. Lei mi diede una risposta che fu anche una lezione: «Per tutta la vita lo stato ha cancellato il mio volto e la mia identità, mi ha reso invisibile perché sono una donna. Fai tutto quello che puoi per ridarmi il mio volto, pubblica e condividi i miei video, così come sono». Ne arrivò un quarto, nel quale Yasaman cantava in pubblico, sempre senza velo. E indovina un po’? Anche cantare è vietato in Iran. Ma fu il quinto video a scioccarmi. È il video del suo primo arresto, una delle tante cittadine e cittadini che vennero arrestati al tempo delle proteste di massa in Iran nel 2017. Si era unita ad altre persone per rivendicare i suoi diritti. Mi mandò il video dalla camionetta della polizia nella quale era stata rinchiusa e portata via insieme ad altre otto ragazze e ragazzi arrestati dalle autorità. Riuscì in qualche modo a nascondere il telefono e a girare e mandarmi il video, una cosa molto pericolosa. Nel video mi diceva «Masih, per favore, tieni viva la mia voce se mi incarcerano».

Venne incarcerata?

Sì, per un anno, durante il quale non ebbi notizie da lei. Ma mentre lei era in carcere, sua madre, Monireh Arabshahi, riempì il vuoto lasciato da Yasaman e divenne lei stessa un’attivista. Mi disse che nonostante non avesse quel tipo di background si sentiva in obbligo di continuare a difendere le idee di sua figlia, cui il regime aveva tolto la voce. Appena venne rilasciata Yasaman continuò con ancora più forza a combattere per i suoi diritti. Si mise in contatto con me di nuovo e questa volta, insieme a sua madre, convinse molte sue amiche e amici a unirsi a lei a protestare contro il velo obbligatorio. Nella Giornata internazionale della donna del 2019 realizzò il suo video più noto, quello nella metropolitana di Teheran, nel quale, sempre a capo scoperto, invita le altre donne presenti a decidere per se stesse e non accettare imposizioni. Yasaman ha la disobbedienza civile nel suo dna ed è questo che spaventa il regime. Fu così che venne arrestata una seconda volta, questa volta insieme a sua madre. È ancora in carcere.

Nel carcere di Quarchak, tristemente noto per le condizioni estreme nelle quali sono tenute le prigioniere…

Sì. Yasaman e sua madre sono state sottoposte a una continua tortura psicologica.

Oltre all’isolamento, il loro rifiuto a “pentirsi” ha portato a una condanna di sedici anni di reclusione. Per questo penso siano delle eroine. Perché in condizioni davvero estreme non hanno rinunciato alle loro idee, alla loro lotta. L’8 marzo scorso sono riuscite in qualche modo a mandare un messaggio vocale nel quale dicono che non hanno rimpianti e che si sentono sempre più forti nel continuare la lotta per la libertà e l’uguaglianza in Iran.

Perché crede che una storia così tragica ed esemplare sia stata in larga parte ignorata dai media occidentali, nonostante Yasaman sia indubbiamente una donna e rappresenti una storia che ha aspetti che potrebbero interessare anche i media che non hanno a cuore la libertà delle donne? Una giovane e bella donna, che canta e balla…

Penso che la maggior parte dei media occidentali focalizzano l’attenzione solamente su ciò che fanno gli attivisti molto conosciuti, dimenticando gli enormi sacrifici fatti dalle persone normali, dai semplici cittadini, dalle donne “ordinarie” come Yasaman Aryani, sua madre Monireh ArabShahi, Saba Kordafshari e sua madre Raheleh Ahmadi o Mojgan Keshavarz. È un errore molto grave perché se i media continuano a parlare soltanto degli attivisti famosi, restituiscono l’impressione che le persone normali che vorrebbero diventare attivisti non riusciranno a essere un veicolo di cambiamento. Condividendo i video e le storie di donne ordinarie come Yasaman possiamo invece mostrare che il cambiamento è possibile, anche attraverso gli sforzi di persone che semplicemente fanno parte della “società civile”.

Solo così anche le persone che vivono in piccole città e villaggi potranno diventare parte del cambiamento, non saranno scoraggiate dal partecipare al cambiamento. Pensate al movimento delle suffragette o a Rosa Parks. Come tutti sanno Rosa Parks era una donna normale. Non era una giornalista o un’attivista. Ha rischiato di essere imprigionata per lottare per i propri diritti. Penso che Yasaman, sua madre e le altre donne come loro siano le Rosa Parks dell’Iran di oggi.

Dunque crede che la strategia più efficace per un’attivista e giornalista sia quella di dare voce alla quieta e non-violenta rivolta delle donne come Yasaman…

Assolutamente sì. Il mio lavoro come giornalista e attivista è proprio questo. Iniziative come #WhiteWednesdays e #MyCameraIsMyWeapon hanno l’obiettivo di aiutare le persone “normali” a identificarsi nelle cause che le riguardano, unirsi e avere un ruolo significativo nel cambiamento. Io ho un’audience che metto a loro disposizione per aggirare la censura cui sono sottoposti i media iraniani. Sono profondamente convinta che l’unico modo per combattere la chiusura dei media liberi, delle Ong, delle organizzazioni per i diritti delle donne in Iran, sia quello di trasformare ogni donna in un’attivista. I milioni di follower sui social servono a questo: dare voce a chi non ce l’ha.

Dunque spetta agli attivisti che hanno visibilità come lei dare voce alla rivolta della gente comune. Pensa questa strategia possa essere efficace anche rispetto ai media occidentali?

Sfortunatamente i media occidentali sono soprattutto concentrati su temi come il programma nucleare in Iran oppure sono orientati dalle lobbies che sono in affari con la Repubblica islamica. Queste lobbies e i media a esse vicini non daranno mai voce a donne come Yasaman, donne che vivono in uno stato di apartheid di genere. La narrazione in questo tipo di media è che ci sono i moderati in Iran, ma ciò che non dicono è che questi cosiddetti moderati acconsentano che ci siano violazioni quotidiane dei diritti umani; torture, esecuzioni capitali e la sistematica incarcerazione degli attivisti. Persone normali come Yasaman, i suoi amici e migliaia di altri attivisti non sono riconosciuti come interlocutori da questi cosiddetti moderati. Quando gli iraniani dicono che non vogliono la dittatura religiosa, l’occidente chiude occhi e orecchie.

Ne ho avuto conferma approfondendo la vicenda di Yasaman. Crede che quanto dici valga anche per i leader, i governi e le istituzioni internazionali?

Per i politici occidentali il tema iraniano si riduce a quello del nucleare e del commercio, ritenuti di gran lunga più importanti rispetto a quello dei diritti umani. Penso inoltre che i politici occidentali contribuiscano indirettamente alla nostra repressione. Quando donne politiche vengono in Iran e ubbidiscono all’obbligo di indossare il velo senza dire nemmeno una parola, fanno questo; legittimano l’apartheid di genere e un regime teocratico e dittatoriale.

Spesso intervistando membri del clero iraniano e ponendo la questione del velo e dell’apartheid di genere mi sono sentita rispondere che «Anche donne molto importanti, leader politiche e istituzionali internazionali come Catherine Ashton e Federica Mogherini rispettano le nostre leggi sul velo. Come ti permetti di metterle in discussione?» Perché ubbidiscono? Perché non hanno il coraggio di venire a capo scoperto? Perché non tendono una mano alle loro sorelle iraniane?

Durante le proteste del 2017 e del 2019, quando il popolo riuscì a intimidire il regime, ci furono rappresentanti dell’Unione europea che ebbero l’audacia e la sfrontatezza di venire a stringere le mani insanguinate del regime e ignorare le violazioni dei diritti umani anziché riconoscere il nostro movimento di disobbedienza civile. Anche questo rafforza il regime repressivo di Teheran.

Nonostante io viva a decine di migliaia di chilometri dall’Iran, la mia campagna dà voce a questi attivisti invisibili. Ciò ha attirato l’ira delle autorità in Iran. Questo ha portato all’arresto di mio fratello, condannato a otto anni di reclusione nonostante egli non sia un attivista. Lo hanno praticamente preso in ostaggio per punirmi e ridurmi al silenzio. Ma finché ci saranno donne come Yasaman che urlano forte il loro no, io non starò in silenzio.

Tutto questo riguarda ognuno di noi, perché il nostro silenzio annulla le voci di chi cerca disperatamente di farsi ascoltare, a costo di rischiare la propria vita combattendo per i propri diritti. Di storie come quella di Yasaman ce ne sono a decine di migliaia, dall’Arabia Saudita, alla Russia, alla Cina. Fino a quando la comunità internazionale permetterà che nel ventunesimo secolo ci siano dittature che, spesso in nome della religione, privano le persone, e in modo sistematico le donne, dei loro diritti fondamentali, nessuna democrazia sarà davvero tale, o, detto con le parole di Musil, che non hanno perso di senso, «Il tempo presente è antifilosofico e vile; non ha il coraggio di decidere che cosa ha valore e che cosa non ne ha, e democrazia, per dirlo con la massima concisione, significa: “Fai quello che accade!”»

Ecco. Non possiamo più “fare quello che accade”.

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