Per decenni la politica di Israele è stata determinata dai temi di pace e sicurezza. Non è più così. Oggi la stragrande maggioranza degli israeliani è unita in uno stanco consenso: una soluzione a due stati non è fattibile nel prossimo futuro. La domanda che ora ci divide è ancora più fondamentale. Continuerà la democrazia israeliana a essere liberale, con la tutela dei diritti individuali? O abbandonerà i suoi princìpi fondanti per diventare uno stato nazionalista illiberale?

Gli attacchi alla democrazia liberale israeliana vengono da due fronti: il primo è una sezione ideologica della destra; il secondo è quello del primo ministro Benjamin Netanyahu, un leader sempre più distaccato e corrotto che si avvicina al dodicesimo anno consecutivo al potere e sul quale ora incombe la minaccia della prigione. Negli ultimi 18 mesi, queste due parti hanno marciato insieme.

Ebraico e democratico

Lo stato di Israele si definisce formalmente “ebraico e democratico”. Per molto tempo è stata la prima parte a suscitare opinioni contrastanti. Il sionismo mainstream considerava l’essere “ebraico” una categoria nazionale più che religiosa, rendendo lo stato di Israele ebraico e democratico allo stesso modo in cui la Francia era francese e democratica. Elementi marginali dell’estrema destra volevano applicare il termine “ebraico” in senso religioso o etnico, ma non hanno mai fatto molti progressi.

Più recentemente la controversia si è spostata sulla seconda parte dell’auto-definizione israeliana: democratica. Diverse personalità di spicco della destra hanno fatto eco al primo ministro populista ungherese Viktor Orbán, che sposa la democrazia illiberale, interpretando nella realtà l’aggettivo “democratico” come “qualunque cosa voglia la maggioranza”. Questa sfida alle tradizioni liberaldemocratiche di Israele ha trovato un successo che la vecchia frangia etnico-religiosa non ha mai ottenuto.

L’Israeli Democracy Institute, un importante think tank israeliano che monitora lo stato di salute della democrazia del paese, ha descritto la legislatura 2014-19 come «la più dannosa di tutte per quanto riguarda i valori democratici, la libertà di espressione, il gatekeeping e, soprattutto, i diritti delle minoranze».

La cosa più significativa è stata l’approvazione nel 2018 della legge Stato-nazione, la quattordicesima delle “leggi fondamentali” essenziali in un paese che non ha una costituzione scritta. I redattori di destra di questa legge l’hanno presentata come il preambolo di una futura costituzione israeliana per sostituire la dichiarazione di indipendenza di Israele, che espressamente promette di «garantire la completa uguaglianza dei diritti sociali e politici per tutti i suoi abitanti indipendentemente dalla religione, razza o sesso; [e] garantire la libertà di religione, coscienza, lingua, istruzione e cultura».

Al contrario la legge sullo Stato-nazione cambia esplicitamente l’arabo da lingua ufficiale a lingua meramente riconosciuta e omette qualsiasi riferimento all’“uguaglianza” o alla “democrazia” accanto alle molteplici enfatizzazioni sul carattere ebraico dello stato. Non si tratta di una svista: questa omissione definisce la traiettoria politica del paese.

La mossa finale è uno stato illiberale il cui carattere ebraico ha la meglio sulla democrazia e in cui non esiste alcuna autorità per impedire al governo di attuare qualsiasi legislazione necessaria per cementare questa trasformazione. I cittadini arabi di Israele sono circa il 20 per cento della popolazione, e sebbene una piccola minoranza di razzisti dell’estrema destra parli di «una minaccia demografica», questo tema non è affatto al centro del dibattito della destra. È piuttosto la spinta a mettere da parte i liberali israeliani ed elevare il nazionalismo populista ebraico che motiva la presa di potere.

Dove ci porterà tutto questo? Possiamo farcene un’idea guardando quali siano state le altre priorità della destra durante quel “dannoso” mandato alla Knesset del 2014-19. Una di queste era una legge che imponeva alle ong di dichiarare tutti i finanziamenti provenienti da governi stranieri, nel tentativo di individuare quelli ritenuti “non israeliani” o “non patriottici”. Le ong per i diritti umani, spesso vicine all’opposizione di sinistra, erano chiaramente nel mirino.

Ancora più estremi sono stati alcuni progetti di legge governativi che per ora sono stati bloccati. Tra questi c’era l’assegnazione al ministro della Cultura Miri Regev del diritto di decidere se il teatro o le mostre meritassero un finanziamento statale in base alla loro “lealtà allo stato”.

Lo scudo per il primo ministro

Un’altra iniziativa pericolosa è stata una legge che impediva l’incriminazione di un primo ministro in carica. Il fatto che Netanyahu sia impantanato in varie indagini di corruzione, ci è stato detto, è stato puramente casuale. Poi c’è stato il tentativo di far passare una “clausola di annullamento” per consentire a una maggioranza parlamentare semplice di revocare le decisioni della Corte suprema. Ciò ha suscitato preoccupazione in modo particolare, poichè la Corte è l’unico vero controllo del potere esecutivo in Israele. E per questa ragione gli israeliani illiberali la detestano. Un paradosso della democrazia israeliana è che, seppur radicata in una cultura politica caratterizzata da media rumorosi e ipercritici e da un numero straordinario di organizzazioni della società civile, essa poggia sulle più fragili fondamenta istituzionali.

Sotto il suo sistema parlamentare Israele ha un potente esecutivo nazionale che controlla la maggioranza della legislatura e i singoli membri del parlamento hanno una capacità limitata di entrare in conflitto con la linea del partito. Non esiste una seconda camera del parlamento per criticare e modificare la legislazione e pochi poteri sono conferiti alle città o alle regioni. In assenza di una costituzione scritta, tutto ciò che rimane sono quelle leggi fondamentali che possono essere modificate o cancellate da una semplice maggioranza alla Knesset. In effetti, l’autorità della Corte suprema è il baluardo tra Israele e una democrazia illiberale sfrenata.

Il processo a Netanyahu

Tutto questo avviene mentre Netanyahu deve affrontare un processo penale con tre accuse di corruzione. Il suo predecessore Ehud Olmert è finito in prigione per reati simili, ma Netanyahu ha preso lezioni dal suo amico Donald Trump su come combattere tali accuse: vomitare teorie del complotto. Netanyahu ha rivendicato un complotto del “deep state” contro di lui, affermando che il capo della polizia che guida le indagini e il procuratore generale che ha presentato le accuse hanno «unito le forze con i media della sinistra per perseguirmi con accuse bizzarre e inventate, allo scopo di deporre un forte primo ministro di destra». In realtà sia il capo della polizia sia il procuratore generale provengono da ambienti dichiaratamente di destra e sono stati nominati personalmente da Netanyahu.

Lo stallo elettorale

La situazione di stallo elettorale ha temporaneamente interrotto la marcia verso l’illiberalismo, costringendo il Likud di Netanyahu a una coalizione con Blu e bianco, il partito del suo principale oppositore centrista Benny Gantz. Blu e Bianco, insieme al quasi defunto Partito laburista, è riuscito a fermare il piano di Netanyahu di legiferare sulla propria immunità e di neutralizzare la Corte suprema. Ma questa è soltanto una tregua.

Nel momento in cui scrivo sembra probabile una quarta elezione in meno di due anni. Se anche Netanyahu riuscirà o meno a rimanere aggrappato al potere, resterà il divario tra coloro che insistono su uno stato nazione ebraico che sia anche uno stato di tutti i cittadini, e coloro per i quali le richieste della maggioranza ebraica dovrebbero prevalere per sempre su qualsiasi interesse liberale o relativo ai diritti civili. Eppure i liberali israeliani non sono senza speranza. Yair Lapid e il suo partito Yesh atid (There Is a Future, C’è un futuro) guidano l’opposizione alla Knesset. In un lungo saggio che delinea la sua visione politica, Lapid paragona esplicitamente Netanyahu sia ad Orbán sia al presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan. Sostiene che tutti e tre «utilizzano il linguaggio della democrazia e della democratizzazione anche se abusano del potere delle loro posizioni per smantellare i sistemi democratici nei loro paesi».

Lapid è sinceramente impegnato nel dibattito sul futuro della democrazia e sulla minaccia attuale del populismo autoritario. A giudicare dalle manifestazioni di massa ormai settimanali che invocano le dimissioni di Netanyahu, è una battaglia che centinaia di migliaia di israeliani sembrano ansiosi di combattere.

Israele è un paese di appena nove milioni di cittadini. Nonostante le teorie del complotto antisemita, non è una superpotenza. È però una democrazia liberale con una storia unica di sopravvivenza in una regione altrimenti autocratica, spesso dispotica; una società moderna e libera con protezioni (per quanto imperfette) dei diritti delle minoranze; cambi regolari di governo tramite il voto; una stampa libera e vivace; una società civile turbolenta; e un diritto alla protesta che viene spesso esercitato. Moltissimi israeliani stanno combattendo attivamente per preservare questa eredità. Gli amanti della democrazia e della libertà di tutto il mondo dovrebbero augurarci ogni bene. 

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