Il 30 novembre la Fondazione al Furqan, organo ufficiale dello Stato Islamico, ha annunciato la morte «in combattimento» del califfo Abu al Hasan al Hashimi al Qurashi e la nomina del successore Abu al Husain al Husaini al Qurashi.

A stretto giro il comando supremo americano Centcom ha confermato la morte del leader terrorista, che sarebbe avvenuta a metà ottobre nella provincia meridionale siriana di Dar’a, al confine con la Giordania, dove resiste un’exclave controllata dall’Esercito siriano libero (Fsa).

L’aiuto degli Stati Uniti

Negli anni più infuocati della guerra civile siriana, quando l’Isis aveva preso il sopravvento lungo l’Eufrate e i ribelli di Aleppo e Iblid erano sempre più marcatamente islamisti, gli Stati Uniti tentarono di mantenere in vita e addestrare unità più “laiche” dell’Esercito siriano libero formate da ex militari e attivisti democratici contro la dittatura di Bashar al Assad.

L’area più comoda per alimentare queste formazioni e offrire loro un sostegno logistico era la provincia di Dar’a nel sud, perché la Giordania è sempre stata un fedele alleato degli Stati Uniti e, benché preoccupato, il re hascemita ha permesso queste attività paramilitari alla sua frontiera. È proprio a Dar’a che nel 2011 scoppiarono le prime proteste con la brutale repressione da parte del regime.

Nel 2018 un’offensiva delle truppe di Damasco aiutate dalla Russia è riuscita a costringere i ribelli a firmare un accordo di riconciliazione che garantiva un modesto margine di autonomia a questi ultimi. Sporadici scontri sono continuati ma nel 2020 è stato firmato un precario cessate-il-fuoco.

In quel frangente fu anche liberata una sacca nella valle del fiume Yarmouk, al confine con Israele, dove si era insediato un agguerrito contingente dello Stato Islamico, l’Esercito di Khalid ibn al Walid, i cui superstiti non catturati si diedero alla clandestinità.

Nuovi scontri

A ottobre di quest’anno si erano riaccesi gli scontri tra l’Esercito siriano libero (Fsa) e cellule dell’Isis che sono tornate in attività. In particolare, riporta il Middle Eastern Institute di Washington, due ex comandanti ribelli di Dar’a, Muhammad al Masalmeh “al Hafo” e Moayad Abdel-Rahman “Harfoush”, si sono di fatto uniti all’Isis e a fine ottobre hanno organizzato un attacco suicida contro un alto esponente locale dell’Fsa, Ghassan al Akram Abazid.

I due si sarebbero alleati con Youssef al Nabulsi, il capo dell’Isis nel sud della Siria noto come Abu al Bara, che nel 2019 è stato rilasciato dal regime di Damasco, probabilmente per giustificare le accuse di terrorismo a tutti i ribelli come già fatto in precedenza.

Questa premessa serve a inquadrare il contesto territoriale in cui si nascondeva il califfo dello Stato Islamico. Alcuni canali jihadisti lo identificano come Abd al Rahman al Iraqi o Saif Baghdad, il responsabile dell’Isis per la regione meridionale siriana.

Il ricercatore Charles Lister afferma che alcuni esponenti del gruppo jihadista si nascondevano nella cittadina di Tafas, proprio nella valle dello Yarmouk, e sarebbero scappati verso nordovest a Jasim, dove l’Esercito siriano libero avrebbe stanato il capo terrorista in una fattoria insieme ad altri luogotenenti, tra cui Abu Mohammad al Lubnani e Abu Luay al Qalamouni.

Forse il califfo Abu al Hasan alias Saif Baghdad si è fatto saltare in aria, come testimoniano alcune foto di un edificio distrutto di Jasim, proprio come i suoi predecessori scovati dalle forze speciali americane nel nord della Siria, Abu Bakr al Baghdadi nel 2019 e Abu Ibrahim al Hashim al Qurashi, alias di al Mawli al Salbi, nel 2022.

Anche loro avevano trovato asilo nei territori controllati da ribelli, ma in quel caso dai rivali jihadisti di Abu Mohammad al Julani, ex capo del Fronte al Nusra, e con l’aiuto della fazione qaedista Hurras al Din, ormai smantellata.

L’altro arresto

A maggio 2022 erano trapelate indiscrezioni sull’arresto del presunto capo dell’Isis a Istanbul. I servizi segreti turchi del Mit hanno effettivamente interrogato per mesi un alto esponente, l’irakeno Bashar Khattab Ghazal al Sumaidai che dirigeva soprattutto operazioni finanziarie dalla metropoli sul Bosforo, e a settembre l’hanno consegnato all’autorità giudiziaria. Tuttavia, non si trattava del capo supremo dell’organizzazione jihadista.

L’annuncio certo della morte del califfo Abu al Hasan è arrivato il 30 novembre dal portavoce dell’Isis, Abu Omar al Muhajir, attraverso un messaggio vocale diffuso su Telegram, sempre più usato dai gruppi jihadisti per la propaganda tra i seguaci. Il predecessore, Abu Ibrahim al Hashimi al Qurashi, il cui vero nome era Mohammed Abdul Rahman al Mawli al Salbi, era anch’egli iracheno e guidava il gruppo dal villaggio di Atme, a soli 15 chilometri da quello di Barisha, dove era stato scoperto al Baghdadi due anni prima.

L’intelligence americana è riuscita negli anni a tracciare i corrieri dei capi terroristi sino a identificare le case in cui si nascondevano con le famiglie, come fece anche con Osama Bin Laden. Lo spionaggio era a conoscenza di un particolare non reso pubblico: Abu Ibrahim aveva perso la gamba destra in un bombardamento americano su Mosul nel 2015.

Quando i satelliti ripresero un sospetto senza una gamba prendere il sole sul tetto dell’edificio sorvegliato, ci fu un’ulteriore conferma della pista. I presidenti Donald Trump e Joe Biden hanno annunciato due operazioni delle forze speciali, arrivate sul posto a bordo di elicotteri per catturare o uccidere i leader dell’Isis, che però si sono fatti saltare in aria pur di non cadere nelle mani di Washington.

Se verrà confermata l’identità dell’ultimo califfo ucciso nel sud della Siria, si conferma la costante della leadership saldamente in mano irachena. D’altra parte, l’Isis allo stato embrionale è nato proprio in Iraq dalle ceneri della filiale di Al Qaeda in Mesopotamia gestita dal giordano Abu Musab al Zarqawi, feroce jihadista mal tollerato da Bin Laden e al Zawahiri.

I tre defunti califfi, quindi, provengono tutti dall’Iraq sunnita e si nascondevano in zone della Siria controllate dai ribelli. I due successori di Abu Bakr al Baghdadi si sono attribuiti il nome di al Qurashi per legittimare una presunta discendenza dalla tribù del profeta Maometto e quindi il diritto a rappresentare la Umma islamica.

Il nuovo leader

Ha fatto la stessa scelta, si apprende dal comunicato dell’Isis, anche il nuovo leader, Abu al Husain al Husaini al Qurashi, di cui non si sa nulla ed è presto per fare ipotesi. Non è chiaro neppure quale approccio adotterà il nuovo misterioso leader designato.

Dopo la fine del califfato territoriale che si estendeva da Mosul a Raqqa, si è optato per una struttura di guerriglia e lotta clandestina, con maggiore autonomia decisionale e operativa per i comandanti locali, anche dovuta alla difficoltà di comunicazione.

Questo impianto de-centralizzato si fonda su cellule che si nascondevano in baracche con sotterranei scavati nei deserti iracheni, le “madafat”, da cui sferrare attacchi sulle forze di sicurezza. Le attività nel quadrante siro-iracheno non si sono fermate, ma ormai rappresentano una piccola parte della violenza perpetrata dal gruppo.

Il primo capo dello Stato Islamico è durato in carica sei anni, il secondo circa tre e il terzo un solo anno. Questa accelerazione denota sicuramente una fragilità interna ma, nonostante una leadership centrale debole e braccata con continue decapitazioni dei vertici, l’Isis resta un brand fortissimo che attrae nuove reclute jihadiste a livello globale, con filiali molto potenti e agguerrite a cominciare dall’Africa.

In particolare, gli “uffici” regionali dello Stato Islamico incaricati di coordinare le attività nei vari continenti hanno espanso il loro raggio di azione al Golfo di Guinea, all’Africa centrale e sud-orientale, dal Benin al Mozambico. Spesso questi paesi hanno istituzioni fragili e forze di sicurezza impreparate, che non controllano le frontiere e subiscono continue imboscate da parte dell’Isis, che compete anche con gli affiliati locali di Al Qaeda in una guerra infra-jihadista.

© Riproduzione riservata