L’intelligence Usa ha già rilevato segnali concreti: movimenti militari, trasferimenti di munizioni e simulazioni aeree indicano che Israele sta valutando seriamente un’azione preventiva. Si consuma così la frattura geopolitica - e umana - tra alleati un tempo granitici come Trump e il premier israeliano. Intanto, al giorno 600 dall’orrore del 7 ottobre scattano le proteste degli israeliani: contro il governo e per la liberazione degli ostaggi
Un attacco militare lampo contro l’Iran, deciso unilateralmente da Israele, è ormai una possibilità concreta, secondo l’intelligence americana. Proprio allo scoccare dei 600 giorni dell'offensiva su Gaza - una guerra che ha ridotto il territorio in macerie e sfollato centinaia di migliaia di palestinesi - trapela che Benjamin Netanyahu potrebbe ordinare un blitz contro le strutture nucleari iraniane senza alcun preavviso. Secondo il New York Times, gli Stati Uniti avrebbero solo sette ore per tentare di fermarlo.
Si consuma così la frattura geopolitica - e umana - tra alleati un tempo granitici come Trump e Netanyahu. Il presidente americano insiste sulla via diplomatica: punta a un’intesa con Teheran, nonostante i negoziati sembrino bloccati sul nodo dell’arricchimento dell’uranio. Washington pretende uno stop totale. L’Iran non intende cedere su quella che considera una linea rossa.
Rischio escalation
Mentre la Casa Bianca cerca di strappare un accordo bilaterale con Teheran, il piano di Tel Aviv per colpire le strutture nucleari iraniane, se attuato, rappresenterebbe una rottura clamorosa con la linea di Trump - erratica, umorale ma finora coerente - e rischierebbe di innescare un’escalation regionale su vasta scala, con effetti ben oltre il Medio Oriente.
La Cia e le agenzie di intelligence del Pentagono hanno già rilevato segnali concreti: movimenti militari, trasferimenti di munizioni e simulazioni aeree indicano che Israele sta valutando seriamente un’azione preventiva. Il gabinetto di guerra avrebbe già delineato diversi scenari, dai raid chirurgici a campagne di bombardamento prolungate, anche su infrastrutture in aree urbane.
La probabilità di un attacco è aumentata nei giorni scorsi. Lo scenario temuto è quello in cui Netanyahu si trovi davanti a un accordo tra Trump e l’ayatollah Khamenei che non preveda lo smantellamento totale delle riserve di uranio iraniane. In un clima di tensione crescente, il messaggio è netto: Israele non si fida e non intende aspettare. Venerdì scorso, il ministro israeliano per gli Affari Strategici, Ron Dermer, e il capo del Mossad, David Barnea, hanno incontrato l’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, nell’ambito dei colloqui tra Stati Uniti e Iran.
Tutte le riunioni si tengono a Roma, all’Ambasciata dell’Oman in Italia, che funge da mediatore. Dermer e Witkoff sono poi volati a Washington per un incontro con il direttore della Cia, John Ratcliffe. Nel tentativo di salvare i negoziati, guadagnare tempo e arginare le pulsioni belliciste di Netanyahu, Witkoff sta valutando “opzioni creative”, tra cui una joint venture nucleare tra Iran, Arabia Saudita e altri paesi arabi, con la partecipazione degli Usa, ma con sede dell’arricchimento da definire.
La dura realtà è che Bibi, mai così isolato e sotto pressione - sia in casa che all'estero - potrebbe essere tentato di forzare la mano, giocando la carta estrema dell’attacco militare. Una mossa disperata, mentre combatte su più fronti per la propria sopravvivenza politica: la guerra che ha devastato Gaza, causando stragi e fame tra decine di migliaia di civili palestinesi; il dissenso crescente all’interno delle forze armate (si rincorrono voci insistenti di un possibile golpe) e dei servizi di sicurezza; l’opposizione del procuratore generale, che lo accusa apertamente di voler sovvertire lo Stato democratico per instaurare un regime autoritario.
Quell’accordo stracciato
Durante il suo primo mandato, Trump aveva stracciato l’accordo del 2015 (firmato da Obama) che limitava l’arricchimento dell’uranio dell'Iran al 3,67 per cento. Da allora, Teheran non solo ha riattivato gli impianti, ma li ha potenziati, producendo uranio arricchito fino al 60 per cento, a un passo dal “grado bomba”. Secondo le agenzie di spionaggio, la soglia del 90 per cento potrebbe essere raggiunta in poche settimane, mentre per la realizzazione di un’arma nucleare servirebbero da alcuni mesi a un anno.
«Non potremmo autorizzare nemmeno l’1 per cento», ha tuonato Witkoff. Certo è che l’asse israelo-americano, un tempo solido, mostra crepe profonde. La determinazione di Netanyahu a procedere da solo, con un’operazione di missili e aerei contro l’Iran, ha spinto Trump a chiamarlo direttamente, qualche giorno fa. Una telefonata in cui il premier i non ha smentito i preparativi, anzi: ha ribadito che Israele si trova di fronte a una «finestra di opportunità» per colpire.
Stando a un’inchiesta di Channel 12, emittente di Tel Aviv, il colloquio si è trasformato in un confronto acceso, ben lontano dal tono cordiale descritto dalla versione ufficiale. Trump avrebbe parlato senza mezzi termini: «Voglio una soluzione diplomatica con gli iraniani. Credo nella mia capacità di raggiungere un buon accordo. Cerco un’intesa che tuteli gli interessi di entrambe le parti». Parole inaccettabili per il premier dello stato ebraico.
«Israele minaccia gli Stati Uniti di bombardare i siti nucleari iraniani per far deragliare i negoziati in corso. E minaccia l’Europa di annettere la Cisgiordania se verranno introdotte sanzioni nei suoi confronti. Il governo Netanyahu continua a seguire la strada dell’isolamento internazionale. E la critica nei suoi confronti si leva anche all’interno dello Stato», ha dichiarato a Domani Cosimo Risi, ex ambasciatore d’Italia in Israele. Il riferimento è a Ehud Olmert, primo ministro israeliano dal 2006 al 2009, conservatore e non certo di sinistra, che in un editoriale su Haaretz ha attaccato duramente l’operato del governo e delle forze armate, dichiarando di non essere più in grado di difendere Israele dalle accuse di «crimini di guerra».
«Se un ex primo ministro di Israele parla apertamente di ‘crimini di guerra’ riguardo ai fatti di Gaza e di forze armate costrette a obbedire senza un piano politico per porre fine al conflitto», osserva l’ambasciatore Risi, «l’isolamento internazionale si trasforma in frattura della società civile. Un duplice danno».
Autostrada bloccata
Nell’anniversario del 7 ottobre - 600 giorni di orrore - non sono mancate le proteste. Alcuni manifestanti hanno bloccato l'autostrada Ayalon di Tel Aviv chiedendo un accordo per il rilascio immediato degli ostaggi detenuti a Gaza e urlando la propria rabbia contro Netanyahu.
Altre manifestazioni si sono svolte a Tel Aviv, anche davanti all'ambasciata statunitense, nella piazza degli Ostaggi e davanti all'abitazione del presidente della Knesset, Amir Ohana, dove i genitori di alcuni dei 58 ostaggi ancora detenuti dal gruppo islamista Hamas hanno detto: «Esci sul balcone e guardaci, i nostri figli sono stati uccisi e aggrediti il 7 ottobre. Da 600 giorni ci volti le spalle. Non ci lasceremo spezzare e continueremo a lottare».
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