Più che di un addio, vista la fragilità del nuovo governo israeliano, potrebbe trattarsi solo di un arrivederci. Ma senza dubbio il voto di fiducia di domenica sera alla Knesset, il parlamento israeliano, segna una svolta storica esautorando il primo ministro Benjamin Netanyahu dopo 12 anni, 2 mesi e 13 giorni consecutivi al potere, che ne hanno fatto il primo ministro più longevo della storia di Israele (oltre 15 gli anni totali, più del fondatore David Ben Gurion). «Con l’aiuto di Dio, [la caduta di questo nuovo governo] arriverà molto più in fretta di quanto voi pensiate», ha tuonato Netanyahu davanti ai deputati.

La seduta precedente il voto di fiducia del nuovo governo è stata a dire poco concitata. Il nuovo primo ministro Naftali Bennett per la prima mezz’ora del suo discorso non riusciva a parlare a causa delle continue urla dei sostenitori di Netanyahu. Lo accusavano di essere un «bugiardo» che si appropriava del governo con «soltanto sette seggi alla Knesset». Le continue urla «vergogna» costringevano il presidente della camera ad espellere parlamentari uno dopo l’altro, minacciando ministri, peraltro suoi compagni di partito, e altri fedelissimi di Bibi Netanyahu.

Consapevole della portata dello strappo, Bennett esordiva ringraziando Netanyahu e sua moglie Sarah per «il servizio reso allo stato». Cercava di sdrammatizzare dicendo «gli ebrei sono un popolo con molte idee, come si vede», mentre i figli teenager, a cui aveva detto che sarebbe diventato «l’uomo più odiato del paese», nel baccano generale in aula gli mostravano le dita messe a forma di cuoricini. «Quanto sta avvenendo si chiama semplicemente democrazia», ha detto Bennett. «Sono fiero di sedermi a un tavolo con persone che la pensano in modo diverso», ha aggiunto, alludendo alla coalizione di otto partiti che in comune hanno soltanto il desiderio di eliminare Netanyahu.  

Bennett ha avvertito che Israele «mantiene la propria libertà d’azione» rispetto all’Iran malgrado la possibilità di un nuovo accordo sul nucleare fra Tehran e Washington. Ha ringraziato Netanyahu per aver sdoganato l’idea della partecipazione di un partito arabo-israeliano nella politica che conta, una mossa che Bibi pensava avrebbe fornito una stampella ad un suo nuovo governo e che invece ha finito per renderne possibile uno rivale. L’arrivo di Netanyahu sul podio ha però subito ricordato a tutti come, in fatto di retorica, il premier uscente non abbia rivali.

«Vi parlo in nome di milioni di elettori, e intendo continuare la mia missione», ha esordito Bibi, rivendicando le sue gesta da patriota israeliano fin dai tempi del militare, quando fu quasi ucciso durante scontri con truppe egiziane. Netanyahu ha poi ricordato il suo servizio da diplomatico negli Stati Uniti, il suo ruolo nella liberalizzazione dell’economia israeliana, fino all’exploit dell’approvvigionamento dei vaccini in coda alla pandemia di Covid-19. «Ho trasformato Israele in una potenza mondiale», ha detto citando le eccellenze israeliane in ambito tecnologico, «mi sono opposto al nucleare iraniano anche quando il mondo ci lasciava da soli, ho stretto accordi con stati musulmani che ci vedono come uno scudo contro la minaccia di Tehran».

E ancora, mentre l’ex dissidente del Likud Gideon Sa’ar ostentava disprezzo per il suo discorso leggendo un libro, Netanyahu rivendicava le concessioni degli USA durante l’amministrazione Trump, come lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme e il riconoscimento del Golan come territorio israeliano. E l’amicizia con Putin «che ci ha permesso di agire liberamente nei cieli della Siria». E poi il muro sotterraneo contro i tunnel di Gaza e quello che ha sigillato la frontiera con l’Egitto, impedendo l’arrivo di immigrati africani che Netanyahu considera una grave minaccia. «Le vittime fra civili e soldati non sono mai state così basse [come negli anni di mio governo]», ha detto sul conflitto coi vicini arabi, «quando sono arrivato i ristoranti esplodevano di bombe, oggi esplodono di clientela».

Oltre che il premier più longevo “Bibi” era anche il primo capo di governo ad essere nato nello Stato ebraico, 17 mesi dopo la fondazione di Israele. I precedenti erano tutti nati o all’estero, oppure nella Palestina mandataria prima della dichiarazione d’indipendenza israeliana. Un dato forse legato alla cifra della sua visione di governo, improntata alla volontà di trasformare Israele da piccola Sparta di pionieri, impelagata nei conflitti del Medio Oriente, in un Paese normale che si affaccia sul mondo vantando le proprie qualità nel campo civile.

Pietra miliare di questa sua missione è stata la squalifica della questione palestinese a una problematica irrilevante, da ignorare come si spazza la polvere sotto il tappeto. In Israele negli ultimi 15 anni, dalla fine della seconda intifada, se ne è parlato sempre meno finché il tema ha smesso del tutto di essere discusso nelle campagne elettorali. Per Bibi era il modo migliore per preservare lo status-quo, che riflette i rapporti di forza favorevoli allo stato ebraico. Anche sul piano internazionale, Netanyahu ha fatto in modo che Israele non sia più solo associata con la questione palestinese, quanto identificata come polo dell’high tech, meta turistica sempre più popolare, laboratorio di eccellenze culturali e di innovazione.

A questo proposito, una delle più quotate biografie di Netanyahu racconta come il premier ami incontrare leader asiatici, perché «vogliono solo parlare di affari». «Di recente si è seduto per un incontro con un importante leader asiatico e per un’ora hanno parlato solo di accordi nel campo della tecnologia», racconta un diplomatico israeliano nel libro. «Solo alla fine un rappresentante ha messo davanti al capo di Stato straniero un comunicato di 30 secondi sull’importanza del processo di pace. Lui l’ha letto, e senza che Netanyahu desse una sua risposta, se ne sono andati subito a pranzo».

Per Netanyahu, come teorizzava già nel suo libro “Israele e il suo posto fra le nazioni” nel 1993, l’unica pace possibile è la «pace della deterrenza». «La prevalenza del radicalismo in Medio Oriente, e il pericolo che nell’assenza di tradizioni democratiche un regime possa diventare radicale da un giorno all’altro, significa che la pace deve fondarsi su garanzie di sicurezza», scriveva. La sinistra compierebbe un «errore concettuale», sosteneva già nella sua prima intervista da primo ministro nel 1996, cioè quello di pensare che la pace garantisca la sicurezza, e non il contrario. Nel suo discorso di congedo domenica alla Knesset si è vantato di aver cambiato le premesse su cui Israele negozia i trattati coi vicini arabi: non più pace in cambio di territori, ma «pace in cambio di pace», lo slogan con cui ha presentato gli “Accordi di Abramo”. La vera minaccia, insiste da sempre, è quella iraniana.

Bennett, che ha posizioni ancora più di destra di Netanyahu, ha invece ricordato nel discorso che la recente guerra di Gaza «ci ha messo ancora una volta di fronte al problema palestinese». Un tema che però intende a sua volta, per quanto possibile, evitare di affrontare: la coalizione è troppo eterogenea e divisa, soprattutto su questioni di identità nazionale. Fra le prime misure ipotizzate dal nuovo governo c’è una legge che fissi a 8 anni, cioè due mandati completi, il limite temporale massimo per la carica di primo ministro. Una misura che Netanyahu, che la considera una legge ad personam, ha definito degna di regimi autoritari come Iran, Siria e Corea del Nord. «We will be back», ha avvertito in inglese i nemici di Israele, liquidando Bennett come poco affidabile. Entrando in aula, prima del voto che lo ha spodestato, si è invece rivolto al pubblico israeliano: «Torneremo molto prima di quanto pensiate».

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