Rafael Grossi, il capo dell’Agenzia internazionale sull’energia atomica delle Nazioni unite (Iaea) alla vigilia di un vertice tra grandi potenze e il rappresentante di Teheran ha suonato l’allarme da Vienna sul programma nucleare iraniano avvertendo che «solo i paesi che producono bombe» stanno arricchendo l’uranio a quel livello di purezza. Insomma se si vuole fermare la corsa all’atomica dell’Iran dell’ayatollah Ali Khamenei si deve tornare al tavolo delle trattative, dare forza ai moderati rappresentati dal presidente Hassan Rouhani, in vista delle elezioni presidenziali a Teheran previste il 18 giugno, ripristinare l’accordo bloccato da Trump e mettere in atto una via diplomatica per ridurre le sanzioni americane che colpiscono l’economia iraniana e la gettano sempre di più nelle mani dei cinesi che ne acquistano il petrolio senza timori di rappresaglie Usa.

L’Italia per decenni è stata, con la Germania, il primo partner commerciale europeo dell’Iran fin dai tempi dello scià e il quinto mondiale, dopo Russia, Cina e Giappone. Le sanzioni internazionali hanno inferto un duro colpo all’export italiano a Teheran un tempo fiorente.

La shuttle diplomacy

Intanto sono ripresi il 25 maggio a Vienna gli incontri in presenza della commissione mista dell’accordo sul nucleare (Jcpoa) tra l’Iran e i 4+1 (Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia), avviati a inizio aprile con l’obiettivo di discutere il possibile ritorno degli Stati Uniti di Biden all’intesa e la revoca delle sanzioni imposte alla Repubblica islamica dall’amministrazione di Donald Trump. La forma è quella della shuttle diplomacy, perché le due delegazioni, quella iraniana e quella americana, non si parlano direttamente: la delegazione statunitense alloggia in una sede diversa da quella delle altre delegazioni, e anziché avere un dialogo diretto, comunica con gli altri membri del Jcpoa che a loro volta parlano con Teheran.

Il nuovo round di colloqui, come nelle precedenti tornate, sarà presieduto dal vice segretario generale e direttore politico del servizio per l’azione esterna dell’Ue, Enrique Mora, a nome dell’Alto rappresentante Ue, lo spagnolo Josep Borrell.

Le trattative ripartono all’indomani dell’annuncio sul prolungamento di un altro mese degli attuali controlli dei “segugi” dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sui siti nucleari iraniani, concordato con Teheran in modo da non ostacolare il difficile confronto diplomatico. Nell’ultimo incontro della commissione mista, la scorsa settimana, le parti hanno espresso l’auspicio che questa nuova riunione possa essere decisiva per il raggiungimento di un’intesa. Il rappresentante di Mosca si è detto fiducioso su un esito positivo senza però fornire dettagli.

Il ruolo dell’Italia

Il 5+1 è il gruppo di lavoro che nel 2006 ha cercato un accordo sul nucleare iraniano ed è formato dai cinque paesi membri permanenti del consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) e la Germania. L’Italia avrebbe dovuto far parte del gruppo che inizialmente infatti si chiamava 5+2, ma poi Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio in scadenza di mandato, ha rifiutato l’offerta per meglio salvaguardare i forti legami economici del paese con l’Iran. Successivamente il governo di Romano Prodi, ha cambiato politica ed è rientrato nel 5+2 mandando il suo ministro degli Esteri, Massimo D’Alema a incontrare Ali Larijani, il capo negoziatore iraniano e oggi candidato (per ora provvisoriamente escluso) alle presidenziali iraniane.

Quando Berlusconi è ritornato al potere nel 2008, altro giro di valzer e l’Italia ha fatto le valigie e lasciato il gruppo per la seconda volta destinandoci alla marginalità diplomatica. Nel 2014, su proposta del premier Matteo Renzi, il suo ministro degli Esteri, Federica Mogherini, è stata nominata Alto rappresentante dell’Ue così da ottenere una rappresentanza informale dell’Italia nel gruppo. Il 14 luglio 2015 il gruppo, sotto la regìa di Barack Obama, ha raggiunto un accordo con l’Iran, che prevedeva l’eliminazione delle sanzioni internazionali. In cambio l’Iran avrebbe bloccato il suo programma atomico. Donald Trump nel 2018 ha deciso di uscire dal Jcpoa e varare una serie di pesantissime sanzioni per favorire il “cambio di regime” a Teheran. Il risultato è stato quello di far alzare il prezzo del petrolio (a causa delle sanzioni al greggio iraniano), favorire l’estrazione dello shale gas americano e rinsaldare il potere a Teheran della guida suprema Khamenei e dei pasdaran, i guardiani della Rivoluzione che estendono l’influenza della Mezzaluna sciita nel Golfo, in Iraq, Siria, sulle coste libanesi del Mediterraneo e nello Yemen, a due passi dall’Arabia Saudita.

Oggi i tre membri europei, Francia, Germania e Gran Bretagna, vedono Londra fuori dalla Ue e quindi l’Italia potrebbe rientrare come terzo componente europeo mentre la Spagna è rappresentata indirettamente da Borrell come Alto rappresentante della politica estera Ue.

Negli ultimi tempi l’Italia ha avuto un ruolo sempre più marginale sul nucleare iraniano. Dopo l’uscita degli Stati Uniti di Trump dall’accordo Jcpoa, Francia, Germania e Regno Unito (E3) hanno cercato (invano) di mantenere in vita l’accordo con due mosse: il varo di un canale commerciale Instex per dribblare le sanzioni Usa (senza successo) e la missione marittima Emasoh, dedicata a monitorare la sicurezza marittima nel Golfo. L’Italia ha deciso di non aderire né a Instex né alla missione Emasoh. Il risultato è stato che dal 2018 l’Italia non ha più avuto un ruolo rilevante sul dossier iraniano, un mercato un tempo tra i più significativi per Roma. È tempo di voltare pagina in vista di un possibile accordo che aprirebbe un ricco mercato un tempo in mano alle pmi e ai grandi gruppi pubblici italiani.

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