Su un furgone in Cisgiordania i medici palestinesi e israeliani seminano pace

L’appuntamento è oltre il checkpoint di Taybeh. Il furgone della clinica mobile dell’ong di medici Physicians for Human Rights-Israel (Phri) si ferma poco dopo essere entrato in Cisgiordania per far salire una decina di dottori e infermieri palestinesi. Hanno raggiunto il punto di incontro a piedi, attraversando i campi che separano la strada da Tulkarem, con le borse contenenti la loro attrezzatura: l’esercito israeliano ha sbarrato la maggior parte degli accessi alla città e camminare è la maniera più rapida per congiungersi ai colleghi israeliani sul furgone di Phri. La destinazione è Burqin, un villaggio cisgiordano nei pressi di Jenin, una delle zone più calde dei Territori occupati. Lì si sono rifugiati un migliaio di palestinesi da gennaio, in seguito a una massiccia operazione dell’esercito israeliano (Idf) al campo profughi di Jenin.L’intero campo, storicamente teatro di violenti scontri tra i suoi abitanti e l’Idf, è stato praticamente raso al suolo e i suoi 17mila abitanti sfollati. Molti palestinesi vedono Jenin come un simbolo di eroica resistenza contro l’occupazione israeliana. Nel 2002, nel pieno della Seconda Intifada, dieci giorni di battaglia hanno ucciso 52 palestinesi e 23 soldati israeliani. In anni più recenti, Jenin è diventata una roccaforte di Hamas e della Jihad islamica in Cisgiordania. L’attacco israeliano al campo, costruito inizialmente nel 1953, era stato preceduto in dicembre dell’anno scorso da raid dell’Autorità nazionale palestinese per arrestare membri di gruppi armati in un’operazione di sicurezza in cooperazione con gli israeliani. Ora non ci abita più nessuno: tutti sfollati. A Burqin si sono inizialmente riversati in circa 4mila, ospitati dagli abitanti del paesino o accampati un po’ ovunque. I mille rimasti sono riusciti a prendere un alloggio in affitto. Ralph Guggenheim, medico di famiglia israeliano, collabora alle cliniche mobili di Phri, gruppi di medici israeliani e palestinesi che prestano assistenza medica e donano medicinali nei Territori da 37 anni, dalla nascita dell’ong. Racconta che le cose sono molto cambiate dal 7 ottobre. Gli intellettuali palestinesi: «L’occupazione non finirà» Dopo il 7 ottobre «Molti medici israeliani, che prima venivano abitualmente con noi, non vengono più per paura. La prima domanda che mi viene fatta quando dico di essere stato in zone come questa è se eravamo scortati da gente armata» dice Guggenheim mentre siamo in viaggio verso Burqin. «Il problema è che gli israeliani non hanno idea di come la gente viva in queste zone. Non parlo quasi mai di quello che faccio quando vengo qui, non perché non abbia nulla da raccontare, ma perché nessuno ha voglia di ascoltarlo». A Qabatiya, una piccola città considerata ricca perché vari palestinesi della zona sono emigrati negli Stati Uniti o in Sud America e aiutano i parenti della zona, il furgone inizia a seguire un’auto bianca guidata da uno degli sfollati di Jenin che ci porta al luogo dove sarà allestita per mezza giornata la clinica mobile. Una volta giunti a Burqin, lo spazio al primo piano di un piccolo ufficio comunale si trasforma velocemente in un centro medico. Alcuni pazienti, tra cui varie mamme con bambini sono già lì nella stanza centrale che funge da sala d’attesa. Intorno ci sono porte che danno su altre piccole stanze dove i medici visiteranno i pazienti. Un giovane palestinese, sfollato anche lui, scrive i nomi dei pazienti e il motivo per cui sono lì in una lista d’attesa, mentre fuma una sigaretta dietro l’altra e beve caffè al cardamomo. I medici e gli infermieri israeliani e palestinesi si dividono i compiti. Uno dei medici di Tulkarem si occuperà della distribuzione di medicinali caricati sul furgone a Taybeh, prima di entrare in Cisgiordania.Quella che probabilmente era la reception di un ufficio, diventa il banco di una farmacia. Per varie ore il medico palestinese distribuirà senza sosta medicinali gratuiti, comprati da Phri con soldi provenienti da donazioni, prescritti dal medico di famiglia dei pazienti o da quelli dell’ong. «Qui manca un po’ di tutto» spiega il medico; distribuisce medicinali per il diabete, vitamine, sciroppi per la tosse e antidolorifici; ne appunta le istruzioni d’uso su bustine di carta. In una breve pausa Guggenheim insieme a un altro medico di Tulkarem spiega che portare medicinali in questi luoghi è una delle missioni principali di Phri, insieme a formulare diagnosi, che a volte non sono state riviste per anni. «Ho appena visitato una paziente che lamentava difficoltà digestive da otto anni ed era qui per avere i farmaci abituali, ma c’è urgente bisogno di una gastroscopia per capire il problema», spiega in inglese il medico israeliano a quello di Tulkarem. Mentre i massacri di Gaza, le violenze dei coloni, l’attesa straziante dei familiari degli ostaggi continuano, tra dubbi e scetticismo sul piano di pace di Trump, vedere medici ebrei e palestinesi della Cisgiordania lavorare fianco a fianco in una delle zone simbolo del lungo conflitto rimanda luce di speranza. Fianco a fianco Per gli ebrei israeliani il trauma del 7 ottobre è ancora lì. Per chi non è d’accordo col governo, la vita in un paese così diviso e incattivito non è sempre semplice. Per gli sfollati di Jenin, c’è la preoccupazione primaria di come sopravvivere, insieme al trauma per le violenze subite a gennaio. Mahmud, uomo di mezza età originario del campo profughi di Jenin, mostra sul cellulare com’era la sua casa: le pareti bianche dell’appartamento su due piani sono ora macerie. I 19 campi profughi dove vivono circa un quarto dei 900mila palestinesi registrati come rifugiati in Cisgiordania sono da decenni piccole città, seppur spesso prive di servizi pubblici dignitosi. Mostra anche la foto di due dei suoi figli, 23 e 30 anni; sono morti nell’attacco israeliano di gennaio. Il terzo, 28 anni, è in carcere in Israele; non sa dove né potrebbe andare a trovarlo. «Non ci possiamo neanche avvicinare ai checkpoint in questa zona, i soldati sono molto aggressivi» dice un altro sfollato di Jenin. «E soprattutto non ci possiamo avvicinare neanche al campo, rischiamo di essere uccisi». Mentre l’infermiera israeliana le misura la pressione, una paziente sfollata da Jenin racconta: «Dopo un mese sono tornata a casa mia per prendere i vestiti dei miei figli. Non ci sono neanche arrivata: mi hanno sparato prima. Ora mi manca un pezzo di fegato». Quando la giornata di lavoro finisce, i medici si confrontano sui loro pazienti: sanno che la depressione è uno dei mali che li accomuna e che non viene trattata in alcun modo. Poi il furgone riparte: i medici di Tulkarem scendono nello stesso punto da dove sono saliti. Gli israeliani si dirigono al checkpoint. «Alla prossima», si promettono. Amir Tibon: «Annettere la West Bank assorbendo milioni di palestinesi sarà il nostro suicidio»