Il 17 marzo del 1991 durante la presidenza gorbacioviana ebbe luogo un referendum per chiedere ai propri cittadini se erano favorevoli a preservare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche in una rinnovata federazione di Repubbliche uguali e sovrane. Il 77,85 per cento degli elettori si espresse in favore della conservazione dello status quo, ma entro pochi mesi i tre presidenti della Russia, Bielorussia e Ucraina decisero di avviare il processo di dissoluzione dell’Urss proclamando la nascita della Comunità degli Stati indipendenti (Accordo di Belovezha).

Esattamente trent’anni dopo, la risposta al giornalista della Abc del presidente americano, che accusa Vladimir Putin di essere un “killer” che dovrà pagare per le interferenze russe alle elezioni presidenziali del 2020, sembra riportarci al periodo della Guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Impero del Male. Non è la prima volta che il presidente Biden esprime un giudizio così negativo su Putin. In un suo libro, Papà fammi una promessa (2018, NR edizioni) dedicato al figlio Beau, scomparso prematuramente per un tumore al cervello, Biden riporta i particolari di un incontro con il presidente russo, svoltosi nel 2011 quando era vicepresidente americano.

Nessuna gaffe

Ricordando la frase di George W. Bush che disse di aver guardato negli occhi di Putin e di avere «avuto un assaggio della sua anima», Biden racconta il suo faccia a faccia con Putin nel seguente modo: «Signor primo ministro, la sto guardando negli occhi, gli dissi sorridendo, e non credo che lei abbia un’anima. Lui mi guardò per un secondo e ricambiò il sorriso. Vedo che ci capiamo benissimo, disse. Era vero».

L’antipatia e la diffidenza di Biden verso Putin non rappresenta nulla di nuovo. Anche durante la campagna elettorale presidenziale Biden non aveva “gradito” la diffusione di notizie false da parte dell’amministrazione putiniana nel tentativo di screditare il figlio Hunter, membro del consiglio di amministrazione della più grande compagnia di gas naturale ucraina, per favorire il presidente uscente Donald Trump. Ma al di là delle questioni personali, ci sono evidentemente strategie politiche che hanno indotto Biden a rispondere volutamente in quel modo, escludendo quindi che si tratti della sua ennesima “gaffe”. Possiamo cercare di evidenziare le più significative, considerando anche la tempistica in cui la dichiarazione è stata rilasciata.

In queste settimane la Cia ha infatti accusato un altro esponente di un regime illiberale, il principe ereditario Mohammed bin Salman, dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, che rientra nella lotta alla “promozione dei diritti umani” (si pensi ai casi Navalnyj e Tichanovskaja) avviata dalla presidenza Biden. Vi è, inoltre, un tentativo delle forze militari ucraine di riprendere il controllo dei territori separatisti nel Donbass, sperando anche in un aiuto dei paesi occidentali e vi è tensione nel Mar Nero tra la flotta russa e quella della Nato. A ciò si aggiunga la “sovranità vaccinale” in chiave geopolitica che la Russia di Putin sta sostenendo attraverso la registrazione del vaccino Sputnik in 51 paesi dinanzi ad una approssimativa gestione dell’Ue, minata da una sua mancata coesione all’interno dei paesi membri che stanno fortemente premendo per il riconoscimento del vaccino russo da parte dell’Ema.

Pare, quindi, piuttosto evidente che l’America di Biden stia attuando un cambio di paradigma nella politica internazionale, una vera e propria discontinuità con il predecessore Donald Trump. Quest’ultimo aveva definito Cina e Russia «potenze revisioniste», ma di fatto riconoscendone la sovranità nazionale e il tipo di regime. Il presidente Biden ha più volte affermato che la Russia costituisce la principale minaccia con cui «camminare e masticare una gomma allo stesso tempo»: cooperare dove si può, come il rinnovo del Trattato nucleare New Start, ma massima intransigenza su altre questioni relative, ad esempio, alla difesa dei diritti umani o alle interferenze elettorali. Tuttavia Biden è consapevole che anche la Cina rappresenta un rivale strategico e il vertice in queste ore del segretario di Stato americano, Anthony Blinken, con il capo della diplomazia cinese, Yang Jiechi, a Helsinki per affrontare delicate questioni può costituire, comunque, una possibilità di avviare una partnership internazionale in un’ottica di divide et impera del connubio sino-russo nella sfida alla ridefinizione di un nuovo ordine internazionale.

Le reazioni del Cremlino sono state immediate e ritenute un attacco non solo individuale, ma alla Russia: dal rientro dell’ambasciatore per la revisione delle relazioni russo-americane, alla portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zacharova, che ha affermato che le relazioni tra i due paesi «sono in una condizione difficile», «in un vicolo cieco negli ultimi anni». La risposta più ferma è stata del presidente della Duma, Vjaceslav Volodyn, che ha definito le dichiarazioni di Biden «inaccettabili, un insulto ai cittadini russi che hanno fatto una scelta e sostengono il loro presidente», «il segnale di una frustrazione per l’impotenza americana e il loro fallimento nel creare problemi alla Russia con sanzioni, minacce, ricatti e interferenze negli affari interni».

L’uso del “caso Navalnyj”

Ma è lo stesso presidente Putin, che in un discorso di due minuti su Rossija 24, ha augurato al suo collega americano di stare “in salute” e ha riportato una storiella di scherno che racchiude, a suo avviso, «un senso profondo, un significato psicologico»: «Se uno affibbia all’altro un brutto nome, quel nome lì definisce proprio chi lo ha detto». Putin ha ricordato la storia americana, caratterizzata da periodi di schiavitù, genocidio delle tribù indiane native locali, l’impiego, per la prima volta al mondo, della bomba atomica per segnalare la differenza con il popolo russo che ha «un altro codice morale» per il quale si collaborerà con gli Stati Uniti «solo in quei campi e alle condizioni che a noi convengono (…) nonostante i loro tentativi di fermare il nostro sviluppo, le loro sanzioni e insulti».

In sintonia con la volontà di mantenere una collaborazione con l’amministrazione americana, il portavoce del Cremlino ha fatto sapere che Putin ha dato il mandato al ministero degli Affari Esteri di chiedere un colloquio con il presidente Biden già domani o lunedì per non «lasciarlo cadere nel dimenticatoio» o «in qualunque momento convenga agli americani» perché «è nell’interesse del popolo russo e del popolo americano e di molti altri paesi». Putin rilancia all’insulto di Biden affermando che «l’ultima volta è stato il presidente Biden a chiamarmi per telefono. Ora io voglio proporgli a continuare il nostro dialogo, ma in diretta televisiva». Se l’obiettivo del presidente Biden è di destabilizzare politicamente la Russia per avviare un processo di democratizzazione interna, utilizzando il caso Navalnyj come “cavallo di Troia” per sostenere l’opposizione interna, rischia di ottenere l’effetto contrario: più si attacca Putin (ovvero la Russia) e più si rafforza il sistema di potere ( e le politiche di repressione) attraverso la narrazione dell’ingerenza negli affari interni del nemico americano che ha sempre avuto un’efficacia sull’opinione pubblica russa. Se e quando la Russia di Putin dovesse implodere, sarebbe probabilmente per cause interne, per la lotta al potere tra le varie fazioni, una “rivoluzione dall’alto” e non per un’eventuale sostegno a un oppositore che non necessariamente condurrebbe il paese nella categoria dei regimi liberali per questioni culturali, storiche e di tradizione.

Non è da escludere, invece, che la strategia adottata da Biden sia quella di “parlare a nuora, perché suocera intenda”. In questo caso, il messaggio è rivolto agli alleati affinché non si lascino condizionare dal “fascino criminale”, ovvero economico come nel caso del gasdotto Nord Stream 2 con la Germania o della “geopolitica del vaccino” nell’Ue, per indurli a fare una netta scelta di campo perché «l’America è ritornata, l’Alleanza atlantica è tornata».

 

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