Chi conosce Boris Johnson a menadito, come il suo ex portavoce Will Walden, sa bene che per tirarlo fuori da Downing Street bisognerebbe «puntargli contro una pistola», e neppure quello forse basterebbe a convincerlo.

Neanche il voto di sfiducia apparecchiato dagli oppositori interni lo schioderà dal governo, per ora. I 211 voti in favore di Johnson sorpassano i 148 contrari. Ma la caduta a precipizio del brexiteer in chief, l’uomo che a colpi di ruspa ha voluto uscire dall’Ue e che ora sta inciampando sui suoi stessi disastri, non deve essere sembrata rassicurante al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, quando oggi Johnson gli ha telefonato per gli aggiornamenti.

Sicuramente la guerra in Ucraina è il principale argomento del premier per ricompattare il fronte domestico, e glielo riconosce anche uno dei principali contendenti alla guida del partito: «Vista la situazione in Ucraina non avrei voluto avere questo dibattito sulla fiducia ora», parola di Jeremy Hunt. Ma per quanto la guerra possa contribuire alla salvezza politica di Boris Johnson, la fragilità del consenso dei britannici attorno alla sua figura non rafforza la posizione del Regno Unito nel fronte pro Ucraina.

Le abilità tattiche del premier, e la scelta di questo momento preciso per il voto di sfiducia, possono solo prolungare l’agonia. Mentre Johnson rassicura il fronte dei falchi – oggi a Downing Street c’era la premier estone Kaja Kallas, a sua volta alle prese con una maggioranza che traballa – intanto si avvicina la data del 23 giugno, e le elezioni suppletive alle quali il suo partito stando ai sondaggi incasserà una sonora batosta.

Frenare la valanga

«Colleghi, abbiamo la possibilità di metter fine alle speculazioni dei media, di tirare una riga sopra gli argomenti dei nostri oppositori e dedicarci a ciò che davvero conta», è l’appello del premier ai compagni di partito.

Quando, subito dopo le celebrazioni del Giubileo, Graham Brady, il capo del gruppo parlamentare conservatore (il “1922 Committee”), ha ufficializzato che il numero di firme per procedere al voto di sfiducia aveva superato la soglia necessaria, Johnson ha fatto ciò che gli riesce meglio: provare a trasformare la cosa in un vantaggio tattico. Quando un leader del partito supera incolume il voto, a meno che non vengano cambiate le regole in corsa, la votazione non può essere ripetuta prima di un anno. Se ottiene buoni numeri, può persino uscirne rafforzato.

Ciò a cui la fronda interna mira, invece, è defenestrarlo dalla leadership del partito, per poi sostituirlo alla guida del governo, e decapitare politicamente Johnson prima che sia lui a stroncare i conservatori alle elezioni generali 2024.

Non è necessario umiliare un premier con una sfiducia, per fargli capire che è il caso di levare le tende: Theresa May ha superato con 83 voti di vantaggio il voto interno dei conservatori, ma quello è stato il preludio delle sue dimissioni qualche tempo dopo. A sostituirla c’era proprio Johnson, che adesso si attacca al governo «con le unghie», come dice l’ex portavoce Walden.

L’insoddisfazione di un pezzo del partito si è coagulata già contro le restrizioni pandemiche imposte dal governo, ma è stato lo scandalo delle feste a Downing Street, proprio quando quelle restrizioni erano in vigore, a rendere il premier – e il partito – vulnerabile di fronte all’elettorato, tanto più che Johnson ha a lungo mentito nel merito.

Una settimana prima che il caso feste esplodesse, i conservatori erano in vantaggio; dopo, un calo dal quale non si sono mai più ripresi. Nonostante la evanescente leadership laburista di Keir Starmer, i tories arrancano in media otto punti dietro.

Sette inglesi su dieci pensano che Johnson stia governando male, e anche se resta a palazzo, il punto è a quale costo. Pur di salvare se stesso e placare i nemici, ha allentato restrizioni prima del tempo, ha sdoganato piani per deportare i rifugiati in Ruanda, e oggi ha promesso ai compagni deregolamentazione selvaggia. Nei sondaggi, il 23 giugno alle suppletive di Wakefield i laburisti sorpasseranno i conservatori di oltre venti punti.

L’impero dimezzato

«Johnson manda armi pesanti, esibisce il suo supporto all’Ucraina, e cerca di sfruttare tutto questo per vantaggio domestico, ma i dubbi interni non sono sulla guerra, sono sulle sue capacità», dice Mujtaba Rahman dell’Eurasia group.

Nell’immediato, l’“effetto Falklands”, cioè l’effetto coesivo della guerra, ha dato sollievo all’agonia politica di Johnson, ma ormai vale piuttosto il contrario: la sua fragilità agisce di riflesso sul resto. Fino a pochi giorni fa, il premier britannico pareva persino pronto a tramare per attirare a sé i “falchi” europei, e condizionare così le politiche continentali. Oggi la domanda è fino a quando terrà incollato a sé il suo stesso partito.

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