Ho attraversato il Kazakistan in lungo e in largo. Per la verità più in largo, scoprendo che, da est a ovest, da Almaty alle sponde di quel che resta del Mare d’Aral, ci sono oltre 3mila chilometri e due diversi fusi orari: un paese grande come l’Europa dal Portogallo alla Polonia. Erano gli anni in cui dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, dopo un breve ma tumultuoso periodo di adattamento, presero finalmente la via dell’indipendenza.

Il Kazakistan fu uno dei primi a rivendicarla all’inizio degli anni Novanta, quando lo stesso segretario dell’allora partito comunista kazako Nursultan Nazarbayevsi trasformò nottetempo nel plebiscitario presidente, ponendo il suo sigillo su due importanti questioni: il legame autocratico con il passato e il deficit democratico del futuro. Il Kazakistan, infatti, entrò a far parte del Comunità degli stati indipendenti, una sorta di Commonwealth di stampo russo e iniziò la caccia all’oro nero.

Dall’altra parte del mar Caspio, l’Azerbaigian è stato uno dei primi paesi al mondo a sfruttare i superficiali giacimenti di petrolio e gas, ma era noto per averne altri confermati sul fondo del Caspio. Anche nel vicino Kazakistan si poteva intuire che ci fossero importanti risorse, anche se pochi avevano certezze di poterle sfruttare. La nostra Eni, insieme ad altre compagnie straniere poi ritiratesi, fu tra le prime a esplorare il promettente fondo del Caspio del nord nel giacimento di Kashagan.

Acque basse, temperature estreme, logistica infernale, tanto petrolio, forse la seconda riserva al mondo con 13 miliardi barili, ma molto solforoso. Per niente facile trovare la quadra economica, rispetto ai crude mediorientali, leggeri e di facile estrazione.

Infatti, ci sono voluti oltre 13 anni prima di iniziare la produzione e tanti costosi problemi da risolvere come la corrosione delle tubature dovute alla concentrazione di sostanze solforose.

L’oleodotto per arrivare sulle sponde del mar Nero attraversa per oltre un migliaio di chilometri il territorio russo. La geopolitica e le influenze sono facili da spiegare: il Kazakistan nonostante l’indipendenza non è mai stato molto lontano da Mosca.

La città del nucleare

An aerial view of a nuclear reactor facility in the city Kurchatov, Kazakhstan, once a center of nuclear weapons development, Tuesday, April 6, 2010. Ban arrived in Kazakhstan Tuesday, where he praised U.S. President Barack Obama's nuclear posture review. (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Oggi la potente mano russa, ieri quella sovietica, lo ha plasmato e influenzato in ogni modo. Le immense steppe dell’Asia centrale furono teatro tra i più grandiosi e spaventosi sogni di creare l’Homo Sovieticus. Nel suo territorio ancora oggi. Kurchatov, la città nucleare segreta che ha preso il nome del padre dell’atomica sovietica, oggi è una città fantasma, ma il contatore geiger che è obbligatorio portare con se, inizia a gracchiare ben prima di arrivare al ground zero dell’atomica russa.

Le istallazioni sperimentali, case, edifici di cemento armato, cannoni e blindati sono sparpagliati nella steppa: erano i product test per verificare l’effetto dell’esplosione atomica. A 150 km da lì, la città di Semipalatinsk porta ancora oggi le tracce delle centinaia di esplosioni in atmosfera.

Il tasso di malformazioni rimane altissimo e il museo degli orrori contiene quello che un medico segretamente ha nascosto per documentare gli effetti delle radiazioni sull’uomo. Teste doppie, feti deformi, embrioni umani mai nati o dalla vita breve e impossibile, repertoriati in grandi boccali, sono la cupa testimonianza di quell’epoca in cui guerra fredda e progresso si credevano congiunte.

La guerra biochimica

L’anima profonda del Kazakistan sopravvive, nelle immense steppe, ma mai abbastanza lontane dall’altra eredità sovietica, quella della guerra biochimica.

A Stepnogorsk, quasi al confine con l’attuale Russia, il più grande kombinat dedicato alla produzione di armi biologiche, in particolare l’antrax ad uso militare, a proposito di virus, batteri vaccini, l’Unione Sovietica aveva una tra i migliori scienziati al mondo. L’Antrax, peste, vaiolo, geneticamente modificati dopo la produzione venivano sperimentati a 2mila kilometri a est, sull’isola Vozrozhdeniya, in mezzo a quello che era il mare d’Aral, ormai pressoché prosciugato.

Il cotone nel deserto

The Soyuz-FG rocket booster with Soyuz MS-08 space ship carrying a new crew to the International Space Station, ISS, blasts off at the Russian leased Baikonur cosmodrome, Kazakhstan, Wednesday, March 21, 2018. The Russian rocket carries Russian cosmonaut Oleg Artemyev, and U.S. astronauts Richard Arnold and Andrew Feustel. (AP Photo/Dmitri Lovetsky)

Anche lì, l’immensa mano sovietica aveva canalizzato l’Amu Darya, il fiume mare, che dalle vette del Pamir andava ad alimentare il mare d’Aral. Lo scopo era trasformare il deserto in campi di cotone, ma l’acqua evaporava e il suolo si mineralizzava con uno strato salino, il cotone deperiva.

L’immensità della catastrofe ecologica è visibile pressoché ovunque. Le navi d’acciaio della flotta peschereccia e di trasporto del mare d’Aral ormai scheletri arrugginiti non cavalcano più le onde ma le dune di sabbia, mandrie di cammelli battriano (quelli a due gobbe), le navi del deserto, che per millenni hanno solcato le piste della via seta, vagano bradi o allevati da qualche sparuta famiglia di nomadi. Già, i kazaki erano in gran parte nomadi, come gli uzbeki e i kirghisi, tutti popoli sedentarizzati, isolati e chiusi da frontiere inventate da Stalin.

I russi li hanno sempre temuti questi popoli musulmani d’Asia centrale, e ora è facile immaginare che la questione islamica possa diventare lo stigma con la quale si cercherà di marchiare i manifestanti, replicando così uno dei più pericolosi giochi di manipolazione e diffamazione, alimentando le profezie auto-avveranti con cui i manifestanti rischiano di diventare fondamentalisti islamici.

Proprio nei luoghi dove si combatte la più violenta esplosione, quasi una guerra civile, le piazze, i monumenti, le decorazioni sono tutte ispirate alla epopea di Gengis Khan e del suo discendente Tamerlano. Portarono guerra e distruzione ai quattro angoli del mondo, ma sono gli eroi nazionali di un popolo che non ha mai accettato l’autocrazia di satrapi corrotti e di una modernità che ha esasperato le diversità e non ha distribuito la pur immensa ricchezza del petrolio.

Il Kazakistan nasconde minerali preziosi come l’uranio. Un’altra città segreta che ho visitato è costruita intorno alla più grande miniera a cielo aperto, le cui polveri, quando si leva il vento dalla steppa, continuano ad avvelenare la popolazione.

Lì si è sperimentata negli anni Sessanta una centrale atomica talmente potente che ancora oggi costituisce un problema smantellarla. Difficile prevedere cosa avverrà tra Almaty e Nur-Sultan, l’ex Astana costruita dal nulla nella steppa del nord e da poco rinominata in onore dell’uomo che da più di trent’anni ha plasmato e plagiato l’identità di questo straordinario paese e di questo popolo.

Duilio Giammaria, autore di Seta e Veleni, racconti dall’Asia Centrale, Universale economica Feltrinelli, ha viaggiato a lungo in Kazakistan realizzando documentari e reportage per gli speciali del Tg1 della Rai.

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