In piazza Svobody, a pochi passi dalla sede dell’amministrazione regionale, una bandiera viene issata già nelle prime ore del pomeriggio. I militari ucraini entrano nel centro di Kherson, accolti da una folla in festa al grido di «Vsu!», la sigla delle forze armate di Kiev. Poco dopo iniziano a circolare sui social le immagini della liberazione del capoluogo, che si trova sotto occupazione russa da marzo. Si vedono bambini avvolti nel bicolore e adulti, commossi, che si abbracciano e scattano selfie.

Poche ore prima, il ministero della Difesa russo aveva annunciato il ritiro completo di tutte le truppe. Circa 30mila uomini e 5mila tra automezzi e mezzi corazzati russi si sono spostati sulla sponda orientale del fiume Dnipro e hanno abbandonato la città occupata, cambiando, in ogni caso, le sorti del conflitto.

I timori di Kiev

A Kherson l’intelligence militare di Kiev ieri invitava alla resa i soldati russi non ancora usciti dalla città, promettendo in cambio sopravvivenza e sicurezza. «Garantiamo ai prigionieri di guerra cibo, cure mediche e la possibilità di uno scambio con i soldati delle forze armate ucraine tenuti prigionieri nella Federazione Russa».

Da quando il Cremlino ha annunciato la ritirata, la principale preoccupazione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, e dei suoi collaboratori, è che si tratti di un inganno militare. Il timore diffuso, come spiegato in un tweet del consigliere politico Michajlo Podolyak, è che i soldati russi trasformino Kherson in una “città della morte”, mimetizzandosi tra i civili. Non abbassare la guardia è, quindi, l’imperativo che Kiev rivolge ai suoi uomini in queste ore. E l’attenzione è massima anche per quanto riguarda la possibilità di mine nascoste all’interno di edifici civili e seppellite lungo la strada dalla fanteria in fuga.

Il ponte Antonivskiy, l’unico collegamento stradale tra il centro urbano e il versante orientale del fiume Dnipro (controllato dai russi) è stato fatto saltare in aria. Kiev teme che l’artiglieria nemica, riposizionata sulla sponda più sicura, possa avere un facile bersaglio in una città in cui i civili filorussi sono già stati evacuati in massa in queste settimane.

L’altro scenario che da tempo atterrisce Zelensky è il danneggiamento della diga di Nova Kakhovka, che si trova più a monte. Un eventuale sabotaggio dell’impianto comporterebbe l’allagamento di Kherson, impedendo ai mezzi militari ucraini di proseguire nella controffensiva. Le inondazioni su larga scala prosciugherebbero, inoltre, la centrale nucleare di Zaporizhzhia, rendendola inagibile. E questo, ha specificato Zelensky, «significherebbe che Mosca ha dichiarato guerra al mondo intero».

L’importanza di Kherson

La regione di Kherson, formalmente annessa alla Russia con un referendum popolare mai riconosciuto da Kiev e dall’occidente, rappresenta uno snodo centrale nell’andamento del conflitto. Da un punto di vista simbolico, perché è uno dei primi territori occupati dalla Russia dall’invasione di febbraio, ma soprattutto da un punto di vista strategico. Dal capoluogo, che è anche un fondamentale sbocco commerciale sul mar Nero, passano le vie di accesso per la Crimea, penisola contesa e sotto potestà russa dal 2014.

Poche settimane dopo aver fieramente proclamato che tutti gli abitanti delle repubbliche annesse sarebbero stati «cittadini russi per sempre», a metà ottobre il presidente Vladimir Putin aveva dato comando di avviare lo sfollamento dei civili dall’area, motivando la scelta con la necessità di un maggiore spazio di manovra per le truppe. Due giorni fa, infine, l’annuncio di ritirata del ministro della Difesa, Sergei Shoigu.

Ma all’arretramento sul campo di battaglia non è seguito alcun passo indietro sul terreno diplomatico. Kherson resta «una regione russa», ha spiegato ai giornalisti Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino. «È stato stabilito legalmente e non ci possono essere cambiamenti in questo senso». Peskov ha negato che la decisione di arretrare possa essere considerata come un’ “umiliazione” per Mosca. Da un lato il messaggio potrebbe essere tradotto come il rifiuto, irrazionale, di aver perso una battaglia, dall’altro come la consapevolezza di chi segue una strategia, razionale, per evitare di perdere la guerra.

La decisione russa

Fin dall’inizio di questa guerra l’apparato bellico russo ha dimostrato di avere nella carenza di uomini al fronte il proprio, non trascurabile, punto debole. Dopo quasi nove mesi di conflitto i dati dello Stato maggiore americano parlano di oltre 100mila tra morti e feriti tra le fila dell’esercito di Mosca. La mobilitazione parziale annunciata da Putin a fine settembre ha coinvolto centinaia di migliaia di uomini che, però, non saranno pronti a combattere prima di gennaio.

E mentre la riconquista ucraina a sud si fa sempre più incalzante, la scelta del generale Serghei Surovikin – al vertice delle forze armate da ottobre – di «salvare la vita dei militari russi» in attesa di rinforzi al fronte, risponde a una logica di lungo periodo. Oggi, i cittadini di Kherson liberata rimuovono dalle strade qualunque simbolo ricordi l’occupazione russa e festeggiano abbracciati intorno a un fuoco. Ma l’inverno ucraino potrebbe essere ancora lungo.

 

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