La città che nel 2015 si liberò dall’orrore di Daesh oggi deve resistere alle milizie filoturche. In gioco c’è il futuro della Siria: «Un’idea per al Jolani: nomini ministro alla Difesa una donna»
Nel 2015 la città siriana si liberò dall’orrore di Daesh, oggi è circondata dalle milizie filo-turche. «Nel giorno in cui abbiamo protetto questa città abbiamo resistito per tutti: anche per Damasco, non solo per il Kurdistan», racconta gli abitanti nella piazza in cui si celebra l’anniversario. Ma si guarda anche al futuro della Siria: «Abbiamo una proposta per Al-Jolani: nomini ministro alla Difesa una donna»
«La parola “sconfitta” non fa parte del nostro vocabolario. Vinceremo. Sono passati dieci anni e questa città continua a resistere». Kobanê, 26 gennaio 2024. Kawa ha 21 anni e studia all’università della città dei martiri, capoluogo del primo cantone della regione confederale e democratica del nord-est della Siria, in Rojava. È in piazza per festeggiare il decennale dalla liberazione dalla brutale occupazione di Daesh. Qui è iniziata la controffensiva allo Stato Islamico. Siamo a poche centinaia di metri dal confine con la Turchia.
Kobanê, 5 ottobre 2014. La combattente delle Ypj (unità di difesa del popolo delle donne curde) Arin Mirxan si fa esplodere tra i miliziani di Daesh e i suoi carri armati sulla collina di Mishtenur. Un’altura strategica alle porte della città. Impedisce così alle forze del terrorismo jihadista di espugnare la posizione più strategica per l’assedio.
Il martirio di Arin Mirxan dà il via alla liberazione trainata dalle milizie Ypg (Unità di protezione popolare) e Ypj, che il 26 gennaio del 2015, anche grazie all’intervento aereo della coalizione internazionale, mandano al mondo un segnale chiaro: una forza democratica con una visione per una Siria unita c’è, l’unica che può resistere all’Isis.
Resistere, per tutti
«Continueremo questa lotta fino alla conquista della totale libertà per il nostro amato paese, la Siria», scriveva Abu Leyla, combattente leggendario della Siria rivoluzionaria, mezzo arabo, mezzo curdo, in Lettere alla figlia. Parole che risuonano oggi, all’alba di una inattesa occasione per unire la Siria del futuro dopo la caduta di Assad. «Nel giorno in cui abbiamo protetto questa città abbiamo resistito per tutti: anche per Damasco, non solo per il Kurdistan. Faremo di tutto per proteggere la diga», ci spiega Zehra, dottoressa di Kobanê, nella piazza dove sono in atto le celebrazioni. La diga di cui parla è quella di Tishreen, che da settimane viene attaccata dalle milizie della Syrian National Army, i “sicari” dei turchi nel nord della Siria.
A dieci anni dalla liberazione, Kobanê è circondata dalle milizie filoturche. Sulla strada verso la città passiamo a soli cinque chilometri dalla diga, dove i civili portano i loro corpi per protestare contro l’ingerenza di Ankara. Quasi ogni giorno muore qualcuno, i feriti sono migliaia. A trenta chilometri a ovest della diga c’è il fronte.
«Il nostro dovere oggi è portare alla diga i civili che lo vogliono. L’altro ieri siamo partiti da Raqqa e Kobane in un convoglio di cento auto. Appena siamo scesi hanno iniziato a colpirci», confida Khaled, 35 anni. Ha combattuto con le Ypg sia a Kobanê che Raqqa, quando è stata liberata. La Turchia vuole impossessarsi della diga per tagliare i rifornimenti di acqua e di energia elettrica della città, che è chiusa a nord dal confine e a ovest dalle terre occupate nel 2018.
«La Turchia colpisce intenzionalmente i civili», riprende Zehra mentre Abdul, professore universitario sui 50, si avvicina deciso per aggiungere: «I nostri figli sono al fronte, quindi noi continueremo le proteste. Non abbiamo paura». Jassur, Omar e Wael hanno rispettivamente 20, 22 e 20 anni. Sono combattenti dell’esercito a difesa della città. Erano bambini durante la liberazione. «Mio fratello e i miei vicini di casa sono al fronte», racconta Jassur, «ma li consideriamo tutti fratelli e sorelle». «Pochi giorni fa siamo andati alla diga e insieme a noi sono morti una coppia, marito e moglie. Il loro figlio ha due anni e ora è orfano», aggiunge Omar.
Da Qamishli, a Raqqa, fino a Kobanê le persone vogliono raccontare di esserci stati anche loro. «Ci sono andato quattro volte», «ho perso un amico», «mio figlio è rimasto ferito, ma la difesa di Kobane è più importante».
Se Kobane cade, non si abbandona soltanto il popolo che ha sconfitto Daesh, ma anche un progetto politico unico dal punto di vista dell’emancipazione femminile e della convivenza tra etnie diverse cruciali per l’identità del Rojava. I cittadini di Kobane, anche se sollevati per la fine del regime di Assad, sono preoccupati per il futuro della Siria. «Al Jolani sostiene che le donne non dovrebbero avere un ruolo nella politica e nella difesa del paese. Io non concordo. Senza le donne, la società non esiste», dice Aziza, responsabile del centro per le persone disabili della città.
«Hts (la formazione armata islamista siriana Hay’at Tahrir al Sham protagonista della caduta di Assad, ndr) è molto diverso da noi: abbiamo paura che la guerra civile possa continuare e che con il nuovo governo saremo messi gli uni contro gli altri, tra arabi e curdi», fa eco Abdul.
Macerie e festa
Entrando a Kobane si vede un carro armato dello Stato Islamico esposto al centro di una delle rotonde principali. Vicino alla piazza dove hanno luogo le celebrazioni del decennale vediamo il quartiere diventato museo, che l’amministrazione non ha voluto ricostruire dopo la guerra. È un cumulo di macerie, simile a quello che negli anni abbiamo visto ad Aleppo, o più di recente a Gaza. La piazza è in festa, nonostante tutto.
La città chiede solidarietà internazionale. Per questo l’amministrazione ha invitato una delegazione politica da alcuni paesi europei. Hanno risposto solo Francia e Italia. I primi si sono presentati con una rappresentanza di tutta l’opposizione di sinistra. Dall’Italia neanche un deputato. L’unico delegato politico è Amedeo Ciaccheri, presidente dell’ottavo municipio di Roma di Sinistra civica ecologista.
Dieci anni fa la comunità internazionale era intervenuta per sostenere l’unica forza sul campo in grado di sconfiggere lo Stato Islamico. Oggi può nuovamente intervenire al fianco dei combattenti e delle combattenti di qui per tutelare il futuro di tutto il Paese. Rohilat Afrin, la comandante in capo alle Ypj, parla con orgoglio: «Anche il nuovo governo di al Jolani deve decidere se vuole difendere tutta la Siria dalle violenze dei nostri vicini. Gli do un’idea per la Siria di domani: nomini ministro della Difesa una donna».
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