Nelle ultime settimane negli Stati Uniti si è parlato molto di Juneteenth, la ricorrenza annuale in cui si celebra la liberazione degli schiavi, diventata da quest’anno una festa federale. Era dal 1983 che il governo americano non ne istituiva una.

L’ultima volta fu il Martin Luther King Day, la giornata in onore del pastore afroamericano attivista per i diritti civili. In quell’occasione ci vollero dieci anni prima che tutti gli stati riconoscessero la decisione di Washington e dunque l’importanza della figura di King.

Per Juneteenth il percorso è stato ancora più lungo e tortuoso, sebbene l’ultima tappa – quella dell’approvazione da parte del Congresso e della firma del presidente Joe Biden –  sia andata liscia. 

Juneteenth è infatti celebrata dalla comunità afroamericana da oltre 150 anni, mentre per la maggioranza bianca era quasi sconosciuta, o comunque ignorata, fino allo scorso anno.

Proprio perché onorata in modo locale dalle diverse comunità, è stata chiamata con nomi diversi, tra cui festa della libertà e festa dell’emancipazione, ma il più popolare è certamente Juneteenth, ovvero la contrazione di June e nineteenth, diciannove di giugno.

In quel giorno, nel 1865, le truppe dell’Unione capitanate dal generale Gordon Granger entrarono a Galveston, un’isola del Texas, per dare un importante annuncio: la Guerra civile era finita, l’Unione aveva vinto e le sue truppe erano ormai abbastanza forti da far rispettare la proclamazione di emancipazione anche negli stati Confederati del sud.

Il documento era stato firmato dall’allora presidente Abraham Lincoln il primo gennaio del 1863, ovvero due anni e mezzo prima. 

Sentimenti contrastanti

L’istituzione della nuova festività da parte del governo di Washington è stata accolta dalla comunità afroamericana con sentimenti contrastanti.

Da una parte l’innegabile soddisfazione di vedere ufficializzare a livello nazionale una ricorrenza cruciale per la storia della popolazione afroamericana. Dall’altra la frustrazione per l’approssimazione storica con cui viene ricordata e la rabbia per la generale pigrizia, non solo da parte dei politici, intorno a un gesto che senza cambiamenti strutturali resta più che altro simbolico. 

«Una delle ragioni per cui Juneteenth è così importante per me non è tanto che rappresenti la libertà dei neri in America. Piuttosto che ricordi la precarietà di questa nostra libertà», spiega Brenna Greer, esperta in questioni di genere e razza e professoressa di storia al Wellesley College, un college femminile del Massachusetts (dove si sono laureate, tra le altre, Hillary Clinton e Madeleine Albright). Lo dimostrano gli stessi fatti del 19 giugno 1865.

Il fatto che l’annuncio della proclamazione di Lincoln fosse giunta così tardi negli stati del sud rimasti sotto il controllo dell’esercito sudista ha permesso ai proprietari delle piantagioni di approfittare della situazione per ignorarlo il più a lungo possibile.

Più di 250mila schiavi hanno così continuato ad essere sfruttati senza sapere di essere già liberi. Inoltre, spiega Greer, «il messaggio riportato da Granger esortava gli schiavi a rimanere “tranquilli nelle loro case”, intendendo per “case” le piantagioni in cui erano stati schiavizzati, ma chiedendo un compenso per il lavoro».

In molti, spiega, hanno ovviamente deciso di andarsene, ma non è stato semplice. «Juneteenth è una singola data in un processo storico lungo e complesso», ricorda Greer. 

Il fatto che la liberazione venga celebrata intorno a quel preciso evento porta l’attenzione su Granger e le sue truppe che entrando a Galveston portano un messaggio di liberazione.

In realtà gli afroamericani che festeggiano Juneteenth da oltre un secolo più che l’arrivo di un generale ricordano un momento di svolta in una lotta collettiva. «Fissare l’attenzione su una data e su un fatto finisce per oscurare tutte quelle persone marginalizzate e senza nome che hanno avuto a loro modo un ruolo importante nella storia», spiega Greer.

«Quando andavo a scuola avevo un professore che diceva che gli schiavi si erano liberati da soli. Non negava il fatto che ci fosse stata una guerra, ma voleva dire che senza l’opposizione degli schiavi stessi non ci sarebbe mai stata una liberazione». 

Una strada ancora lunga

Per molti afroamericani Juneteenth quest’anno è stato un’occasione per ricordare che c’è ancora molto da fare, a partire dallo studio della storia. 

«Nessuna delle mie studentesse sapeva cosa fosse Juneteenth, a meno che non lo celebrassero già in famiglia», dice Greer. Sebbene negli Stati Uniti non ci sia un programma scolastico unico, e diversi insegnanti abbiano preso l’iniziativa di parlarne ai propri studenti, in generale la storia di Juneteenth non trova spazio sui manuali o viene semplificata.

«È iniziata come festività celebrata soprattutto negli stati del sud e in contesti familiari, intorno a cibo e preghiera, poi nel tempo si è estesa al resto della nazione e sono iniziati eventi più grandi, come parate, concorsi di bellezza, festival e ultimamente diverse attività anche online», racconta Greer, «tutto però sempre legato ad organizzatori e comunità nere».

La ricorrenza si è poi imposta all’attenzione del pubblico generale, compresa la maggioranza bianca, lo scorso anno, quando la Casa Bianca aveva annunciato che l’allora presidente Donald Trump il 19 di giugno sarebbe stato a Tulsa, in Oklahoma, per un evento della sua campagna elettorale, il primo dallo scoppio della pandemia.

A Tulsa, nel 1921, è avvenuto uno dei più feroci massacri di matrice razzista nella storia degli Stati Uniti. Squadre di bianchi distrussero il quartiere di Greenwood, che ospitava la più ricca comunità nera del paese.

Il fatto che Trump pensasse di radunare i suoi sostenitori –  tra i quali gruppi di suprematisti bianchi – proprio in quel luogo e in quel giorno, aveva sollevato pesanti critiche. «Ho fatto qualcosa di buono: ho reso la ricorrenza di Juneteenth molto famosa», dichiarò Trump al Wall Street Journal. «È un evento importante, un momento importante. Ma nessuno ne aveva mai sentito parlare».

La “scoperta” di Trump

Pare che lui stesso avesse “scoperto” cosa fosse Juneteenth grazie ad una guardia del corpo afroamericana. Alla fine il suo evento fu spostato al 20 giugno, anche perché non si trattava di un anno come gli altri. 

Nel giugno del 2020 nelle città americane divampavano le proteste del movimento Black lives matter, a seguito della brutale uccisione di George Floyd da parte di Derek Chauvin, l’ex poliziotto di Minneapolis condannato recentemente a 22 anni e mezzo di carcere.

La ragione per cui per la comunità afroamericana è importante che venga compreso il significato di Juneteenth, è legato anche a quel fatto e ai motivi della ribellione.  

L’effettiva abolizione della schiavitù è infatti stata proclamata sei mesi dopo l’ingresso delle truppe unioniste in Texas, nel dicembre del 1865, con la ratifica del Tredicesimo emendamento da parte della maggioranza degli stati.

«Il Tredicesimo emendamento proibiva la schivitù ad eccezione che fosse la punizione per un crimine commesso», precisa Greer. «L’incarcerazione di massa degli afroamericani è la conseguenza diretta della loro criminalizzazione, della criminalizzazione dei corpi neri a partire proprio dalla loro presunta liberazione», spiega.

Il numero di uomini afroamericani chiusi in carcere o in libertà vigilata è infatti superiore a quello degli uomini ridotti in schiavitù a metà ottocento. Al momento i neri rappresentano il 34 per cento della popolazione carceraria, nonostante costituiscano appena il 13 per cento della popolazione generale.

George Floyd, e come lui migliaia di altre persone, sono morti in situazioni da cui, sostiene Greer, «un bianco sarebbe con ogni probabilità uscito con le sue proprie gambe». 

Anche nella vita fuori dal carcere, la discriminazione continua ad essere strutturale e palese, anche se nell’ultimo anno è come se gli Stati Uniti stessero vivendo un’epifania.

«In quasi vent’anni di insegnamento di storia afroamericana nessuna azienda mi aveva chiesto di andare a spiegare ai dipendenti cosa fosse Juneteenth», racconta Greer, «mentre quest’anno ho ricevuto diverse richieste».

«Fino allo scorso anno le società private parlavano di “diversità” e di “inclusione”, ma non di “antirazzismo”. Questa è una novità», spiega.

«Siamo in un momento in cui Juneteenth e l’antirazzismo sono di moda, ma il rischio è che diventi un po’ come dare l’osso al cane e che si perda di vista la necessità di un cambiamento vero». 

Promuovere l’uguaglianza

Nelle aziende, racconta Greer «ho sempre detto che puntare su diversità e inclusività non serve a niente senza promuovere anche l’equità. Assumere un certo numero di persone di colore è una cosa. Dare loro posizioni di responsabilità e salari adeguati è un’altra». 

L’incoerenza del momento storico, secondo Greer, si recepisce anche nel fatto che sebbene la proposta di rendere Juneteenth una festa federale sia stata accolta in modo unanime dai membri del Congresso continui ad esserci molta tensione politica intorno alla cosiddetta critical race theory, ovvero un filone accademico nato quarant’anni fa che studia come il razzismo non sia un semplice pregiudizio personale, ma sia strettamente legato alla struttura sociale, economica e legale del paese.

L’idea che – sull’onda antirazzista emersa nel 2020 –  venisse accolto e insegnato anche nelle scuole o nei posti di lavoro, ha mandato in tilt parte dei politici repubblicani, che in diversi stati hanno cercato di contrastarlo attraverso leggi locali.

Questo concetto è diventato una tale ossessione che, secondo i calcoli di Media Matters for America, l’emittente conservatrice Fox News l’ha nominato circa 1.300 volte negli ultimi tre mesi e mezzo. «Tutto questo mi fa pensare che molti politici non abbiano capito il senso del riconoscere Juneteenth», dice Greer. 

Tuttavia, più in generale, Greer considera che sia davvero un bene che la festività sia stata ufficializzata, se non altro perché ora chi vuole festeggiare può farlo senza costi, senza prendersi giorni di permesso dal lavoro. E non pensa solo alla comunità afroamericana.

«Senza degli alleati non sarà possibile ottenere il cambiamento a cui aspiriamo, altrimenti sarebbe già accaduto da un pezzo», dice Greer. «Chi vuole essere un alleato o dice di esserlo deve innanzitutto ascoltare per capire quali siano davvero le esigenze dei gruppi più marginalizzati. E poi, cosa più difficile, deve essere disposto a rinunciare ad un po’ di potere per diventare un soldato al nostro fianco».

In altre parole, come direbbe lo scrittore afroamericano James Baldwin, dovrebbe essere disposto a rinunciare alla storia della propria innocenza.

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