Folle di fuggitivi assiepati sulla barriera di separazione. Un esercito che dopo vent’anni si lascia alle spalle il caos. I combattenti islamisti che spazzano via quello che resta delle unità di collaboratori locali. In Israele le immagini dell’aeroporto di Kabul si sono immediatamente sovrapposte con le memorie del ritiro dal Libano, il 24 maggio 2000, quando la decisione attesa ma improvvisa dell’allora primo ministro Ehud Barak gettò nel panico i soldati dell’Esercito libanese del sud (Sla), appendice dell’esercito israeliano (Idf) ormai allo sbaraglio con l’avanzare dei miliziani sciiti di Hezbollah.

Dopo essere penetrato in Libano negli anni della guerra civile per annientare Arafat e la sua Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), l’esercito di Israele aveva cercato di stabilire potentati locali amici. La proclamazione del “Libano libero e indipendente” nel sud del paese, da parte del fondatore del Sla Saad Haddad, e il tentativo di sostenere il cristiano Bachir Gemayel a Beirut, si erano però rivelati dei fallimenti. Per anni l’Idf avrebbe subappaltato l’occupazione della cosiddetta “zona di sicurezza” ai miliziani alleati, ma continuando a subire perdite ingenti per mano della guerriglia islamista. Migliaia i libanesi che ottennero asilo in Israele dopo il ritiro, e che vivono a oggi nel nord nel paese.

Le differenze

Lo stesso ex primo ministro Barak, fautore del disimpegno, ha detto la sua mentre il paragone avventato con le vicende di Kabul si affermava nel discorso pubblico israeliano. In un editoriale sul giornale Yedioth Ahronoth ha fatto notare che a differenza del Libano «l’Afghanistan è a migliaia di chilometri dagli Stati Uniti, e nulla che possa accadere laggiù è una minaccia diretta ai suoi cittadini». Per lui quella di Biden è «una mossa audace che la storia non mancherà di apprezzare». Al contrario dell’ex leader laburista, le destre israeliane interpretano la presa del potere da parte dei Talebani come un monito a mantenere il più a lungo possibile il controllo sui territori occupati, in primis la Cisgiordania palestinese.

È il caso dell’ex primo ministro e leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, che ha rivelato un episodio curioso per ribadire l’importanza strategica dell’occupazione. «Nel 2013 (l’ex Segretario di Stato) John Kerry mi invitò a fare una visita segreta in Afghanistan per vedere, a quanto diceva lui, come gli Stati Uniti erano stati in grado di creare un esercito locale che teneva testa al terrorismo da solo», ha raccontato su Facebook. «Il messaggio era chiaro: quello afghano era il modello che gli Stati Uniti volevano applicare alla questione palestinese (cioè dotando di mezzi militari l’Autorità di Ramallah, ndr)». Netanyahu, a cui era stato offerto di viaggiare servendosi di un travestimento, declinò l’invito.

Il primo incontro

A breve ci sarà però il primo incontro fra il nuovo premier israeliano, Naftali Bennett, e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, previsto per giovedì 26 agosto, a dominare l’attualità nello stato ebraico. L’ultima volta che due leader neoeletti di Washington e Gerusalemme hanno avviato un confronto, all’epoca del primo mandato di Barack Obama e del ritorno al potere di Netanyahu nel 2009, le cose non sono andate per il verso giusto. Lo racconta lo stesso Obama nella sua lunga autobiografia (il primo volume è uscito in Italia per Garzanti, 805 pagine), seppur nei toni prudenti che caratterizzano il libro. La sua richiesta di andarci piano con gli insediamenti illegali, in occasione dei primi contatti, scatenò fin da subito un’aggressiva campagna di Bibi, volta a screditarlo nei circoli più influenti di Washington.

«Il chiasso orchestrato da Netanyahu aveva ottenuto l’effetto desiderato: farci perdere tempo, metterci sulla difensiva e ricordarmi che le normali differenze di vedute con un primo ministro israeliano – perfino se a capo di una fragile coalizione – avevano un prezzo in termini di politica interna che semplicemente non dovevo mettere in conto quando trattavo con il Regno Unito, la Germania, la Francia, il Giappone, il Canada o un altro dei nostri alleati più stretti», ha scritto Obama.

E ancora: «Era difficile dire se Netanyahu avesse ereditato dal padre anche l’ostilità nei confronti degli arabi che dichiarava senza batter ciglio». In un’occasione, Netanyahu pubblicizzò una normale attesa prima di un incontro con Obama alla Casa Bianca come un grave affronto allo stato ebraico.

Ma seppur provenienti da schieramenti opposti, come Obama e Netanyahu, le premesse all’incontro Bennett-Biden sono migliori. L’amministrazione americana ha interesse a favorire la sopravvivenza del governo di coalizione capeggiato dall’ex allievo di Bibi, che include anche forze progressiste, ed è dunque improbabile lo metta alle strette su questioni divisive. Bennett è il decimo leader israeliano che Biden incontra in vesti istituzionali – la prima fu Golda Meir quando era ancora senatore negli anni 70 – e i precedenti restituiscono una tendenza accomodante. Da parte sua Bennett, che come Netanyahu è cresciuto a cavallo fra Israele e Stati Uniti, ha bisogno di entrare in sintonia con Biden per costruirsi una statura internazionale.

Priorità diverse

Dai rispettivi comunicati sull’incontro affiorano però vecchie frizioni. Mentre quello della Casa Bianca cita la questione palestinese fra i temi da affrontare, quello dell’ufficio del primo ministro israeliano non ne fa menzione. In linea con l’era Netanyahu, in cima alle preoccupazioni di Gerusalemme c’è piuttosto il nucleare iraniano, e la possibilità che i negoziati di Vienna rilanciano l’accordo Jcpoa che era stato cestinato dall’ex presidente Donald Trump. «Sia noi che gli americani non vogliamo che l’Iran ottenga armamenti nucleari», dice il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Lior Hayat, ex console negli Stati Uniti. «Differiamo soltanto su come raggiungere questo risultato», aggiunge, sminuendo i possibili attriti fra i paesi alleati.

Durante il colloquio, Biden potrebbe tornare sulla questione degli investimenti cinesi in Israele, che da tempo impensieriscono la Casa Bianca. Lo stesso capo della Cia, William Burns, durante una visita a Tel Aviv nella seconda settimana di agosto, aveva sollevato il problema del possibile coinvolgimento di aziende di Pechino in infrastrutture strategiche israeliane, come il porto di Haifa. Il timore è che gli appalti favoriscano la penetrazione dei servizi di intelligence cinese. Proprio in una fase in cui l’apertura di Pechino al nuovo regime talebano in Afghanistan porta alcuni analisti a paventare un’espansione strategica del Dragone in Medio Oriente.

È invece difficile venga sollevata la questione di Zablon Simintov, l’ultimo ebreo dell’Afghanistan, che pure sta impensierendo i vertici delle istituzioni israeliane. La preoccupazione per le sue sorti ha fatto ipotizzare rocambolesche operazioni di salvataggio, per cui potrebbe servire la cooperazione degli Usa. Ma secondo rappresentanti dello stato ebraico sentiti da Domani, lo stesso Simantov avrebbe manifestato la volontà di rimanere a Kabul. «Israele in passato ha aiutato ebrei a fuggire da territori ostili», dice Lior Hayat del ministero degli esteri israeliano, «ma prima di tutto bisogna che vogliano venire loro, e in questo caso i nostri contatti suggeriscono il contrario».

Noto per il carattere scontroso e mitomane, oltre che per il consumo copioso di bevande alcoliche, Simintov è già stato in prigione sotto l’ultimo regime talebano. Così come il suo ultimo correligionario afghano Isaak Levi, nel frattempo scomparso. I due, che vivevano barricati in zone diverse della cosiddetta “Moschea ebraica”, il palazzo che ospita due ex sinagoghe in via dei fiori in centro a Kabul, si consideravano «l’uno il peggior nemico dell’altro» secondo un dispaccio in presa diretta del Guardian nel 2002. Tanto che fu denunciandosi a vicenda che finirono per attirare l’attenzione dei talebani. Gli islamisti li avrebbero poi liberati perché esasperati dai loro furiosi litigi in cella.

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