Il Tribunale speciale per il Libano (Tsl) ha emesso i suoi verdetti sull’assassinio dell’ex primo ministro del Libano, Rafiq Hariri, avvenuto a Beirut il 14 febbraio 2005. Salim Jamil Ayyash è stato ritenuto responsabile dell’omicidio premeditato di Hariri e di altre 21 persone e del tentato omicidio di altre 226, rimaste ferite. La pena comminata verrà resa nota in un’altra data ma si prevede l’ergastolo. Gli altri tre imputati, Hassan Habib Merhi, Hussein Hassan Oneissi e Asad Hasan Sabra, sono stati invece assolti per insufficienza di prove. Su di loro pendeva l’accusa di complicità nell’omicidio. I quattro, tutti libanesi, sarebbero agenti di Hezbollah, il movimento politico-militare sciita e filoiraniano.

Alla vigilia della sentenza gran parte dell’opinione pubblica e della classe politica libanese si aspettava una condanna per tutti e quattro gli imputati, e indirettamente per Hezbollah stessa. Il timore diffuso, quindi, era quello che l’annunciato rifiuto da parte di Hezbollah di collaborare alla resa dei colpevoli potesse scatenare scontri tra i sostenitori per lo più sunniti del partito Mustaqbal, fondato da Hariri, e quelli in gran parte sciiti di Hezbollah, i cui rispettivi quartieri nel sud di Beirut (Tariq jdeide e Dahiyeh) sono praticamente adiacenti e hanno subito negli anni diversi episodi di violenza.

A man waves a Lebanese national flag outside the United Nations-backed Lebanon Tribunal in Leidschendam, Netherlands Tuesday Aug. 18, 2020. The tribunal is scheduled to later hand down it's judgement in the case against four men being tried for the bombing that killed former Lebanon Prime Minister Rafik Hariri and 21 others. (AP Photo/Laurens van Putten)

Una tensione che avrebbe potuto facilmente causare una pericolosa escalation, anche considerando l’attuale profonda crisi socio-economica e l’instabilità politica, acuite dalla pandemia e dalla devastante esplosione del 4 agosto al porto di Beirut. Alla fine, però, soltanto a Dahiyeh, l’insieme delle quattro municipalità a maggioranza sciita nel sud della capitale, qualcuno ha salutato la sentenza con tiepido favore. A Tariq Jdeide, invece, quartiere a maggioranza sunnita, considerato il feudo per eccellenza del partito Mustaqbal, hanno prevalso lo scoramento e la rabbia, nella convinzione che sia stata una sentenza che offende la memoria di Hariri.

Il giudice David Re ha specificato di non avere alcuna prova del coinvolgimento della leadership siriana e di Hezbollah, pur attribuendo a queste il potenziale movente legato al timore verso l’accresciuta popolarità di Hariri, intenzionato a porre fine alla presenza siriana in Libano.

Il Tsl, istituito nel 2007 a l’Aja, in Olanda, è il primo tribunale internazionale a giudicare atti terroristici come crimini specifici, mossi da motivazioni “politiche” e commessi al di fuori di un contesto bellico. Ed è proprio con l’accusa di politicizzazione dell’inchiesta che Hezbollah (assieme ad altri partiti politici), ormai già diversi anni fa aveva fatto sapere di non riconoscere la legittimità del Tsl, qualunque fosse stato il suo verdetto, poiché “istituito in violazione della sovranità libanese”.

Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, considera il Tsl una delle tante espressioni del piano israelo-americano volto a marginalizzare il movimento sciita, nell’ambito del più ampio tentativo di contrastare l’influenza iraniana nella regione. Questa posizione è anche il motivo per cui i quattro sono stati giudicati in contumacia. Da diversi anni, inoltre, hanno fatto perdere le loro tracce.

In un momento in cui le potenze internazionali, per sbloccare i prestiti e le donazioni a suo favore, chiedono al Libano di attuare una serie di riforme, prima fra tutte la formazione di un governo meno condizionato da Hezbollah, è anche possibile che questo verdetto venga considerato funzionale alla serenità di questa transizione politica. L’estraneità per lo meno formale di Hezbollah alla sentenza dovrebbe alleggerire il senso di “accerchiamento” percepito dalla formazione sciita, già sotto pressione sia per via delle sanzioni americane sia per le proteste anti establishment (di cui Hezbollah è parte rilevante) in corso in Libano.

Le manifestazioni, che vanno avanti da ottobre 2019, si sono interrotte solo nella fase più acuta della pandemia. Indirizzate in senso più ampio contro l’intero establishment partitico-settario della ta’ifiya, il confessionalismo, di cui fa parte anche Hezbollah, sono riprese con particolare veemenza all’indomani dell’esplosione del 4 agosto, criticando in maniera specifica il governo, all’interno del quale il Partito di Dio ha un peso preponderante. Un netto cambio di equilibri rispetto a quando a guidare il governo era Rafiq Hariri.

Quella di Hariri è stata una figura fondamentale nel Libano degli anni Novanta e nei primi del nuovo millennio. Ha realizzato le sue fortune in Arabia Saudita (di cui deteneva il passaporto), dove ha anche fondato la Saudi Oger. E' stato lui, da primo ministro, a guidare la ricostruzione post-bellica (dopo una guerra civile durata dal 1975 al 1990), attraverso una rete di relazioni internazionali vasta, un’innata capacità imprenditoriale e una politica di privatizzazioni e di prestiti. Queste politiche, che hanno permesso la resurrezione soprattutto del centro della capitale e la crescita del turismo, allo stesso tempo sono state motori dell’aumento del debito pubblico libanese, oggi tra i più alti al mondo, e delle disuguaglianze.

Hariri si opponeva alla presenza siriana in Libano, durata quasi trent’anni (1976-2005), e che veniva percepita come una spada di Damocle sulla sovranità libanese, oltre a precludere una serie di investimenti esteri che lo stesso Hariri promuoveva grazie al suo network. Il paese è stato esposto a diverse influenze estere, le più rilevanti sono quelle di Iran, Siria, Stati Uniti e Arabia Saudita, di cui il primo ministro era uomo fidato, in opposizione all’influenza iraniana che si dispiegava attraverso Hezbollah. Dopo il suo assassinio Saad, uno dei suoi figli, ha preso le redini del partito, mentre la sorella, Bahia, è stata eletta deputata nella sua città natale, Sidone, tuttora considerata la sua roccaforte.

Negli ultimi 28 anni la carica di primo ministro, che per legge deve andare a un sunnita, è stata quasi sempre in mano a membri della famiglia Hariri, che si è progressivamente accreditata come portavoce della comunità sunnita, sponsorizzata dalla monarchia saudita. Se però quella di Rafiq era una personalità forte e brillante, oltre ad appartenere a un’altra congiuntura geopolitica (quando l’Iran aveva un peso minore), quella di Saad è forse la sua nemesi. La sua volubilità, contestuale alla crescita del peso di Hezbollah negli ultimi quindici anni, ha spinto nel tempo Riad a ritirare gradualmente il sostegno che gli garantiva: era venuta meno la garanzia di una politica decisa nei confronti di Hezbollah e dei suoi armamenti.

L’episodio più grave risale al novembre del 2017. Da primo ministro del Libano in carica, alla guida di un governo di larghe intese con la stessa Hezbollah, Hariri è apparso il 4 novembre in diretta tv su Al Arabiya dalla capitale dell’Arabia Saudita. Annunciava le sue dimissioni, adducendo come causa pericoli per la sua incolumità posti dal movimento filoiraniano e da Teheran stessa. Tornerà a Beirut un mese dopo, dove ritirerà le sue dimissioni. Più avanti il relatore speciale sulle esecuzioni extragiudiziali delle Nazioni unite, Agnes Callamard, scriverà in un rapporto che Hariri era stato rapito dalle autorità saudite e trattenuto contro la sua volontà, offeso, malmenato, e verosimilmente costretto a rassegnare le sue dimissioni per via del suo approccio considerato “morbido” nei confronti del Partito di Dio. Da quel momento è iniziato il visibile declino di Hariri, che lo scorso ottobre ha rassegnato le sue ultime dimissioni da primo ministro, incalzato da proteste in tutto il paese, ed è rimasto per lo più defilato.

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