La grande promessa è la creazione di migliaia e migliaia di posti di lavoro. La “bonificazione” di aree abbandonate o immerse nella povertà e, in un breve arco temporale, una nuova prosperità, innovazione e benessere per quell’area. Una promessa che potrebbe però rivelarsi un inganno.

È la promessa di Amazon, il colosso dell’e-commerce statunitense, che ormai da anni macina successi e profitti, aprendo nuovi, giganteschi hub in tutto il mondo. «Dal suo arrivo in Messico Amazon ha creato più di 15mila posti di lavoro in tutto il paese e il nuovo centro creerà 250 nuovi posti di lavoro per la comunità locale», dice Marisa Vano, portavoce di Amazon, al sito Vice commentando il nuovo centro logistico della multinazionale costruito a Tijuana.

Altri 1.000 posti sono stati annunciati per un nuovo stabilimento in Italia, vicino Chieti, dove – entro il 2022 – avverrà l’apertura di un centro di distribuzione a San Salvo. Sono invece 3.000, i lavoratori che dovrebbero essere assunti in Egitto.

Linea di espansione

Ed è proprio nel paese nordafricano che a fine agosto Amazon ha inaugurato una struttura logistica, la prima nel suo genere in Africa, a Città del decimo Ramadan, nei pressi del Cairo. Si tratta di un hub che copre una superficie di 28.000 metri quadrati. La sua realizzazione rientra nei piani a lungo termine del colosso statunitense per espandere la propria presenza in Egitto e in tutto il continente africano.

Secondo quel che ha dichiarato il vice presidente di Amazon responsabile per medio oriente e nord Africa, Ronaldo Mouchawar, l’azienda sta investendo una cifra pari a circa 60 milioni di euro contribuendo alla crescita del livello occupazionale in Egitto.

Ma cosa c’è dietro le migliaia di posti di lavoro annunciate e perché Amazon ha scelto l’Egitto per espandere i propri interessi? Un primo fattore da considerare è la posizione strategica del paese. Come spiega Mattia Giampaolo, ricercatore di politica internazionale per il Cespi, «per Amazon l’Egitto offre una grande capacità di penetrazione nel continente e nel medio oriente: il paese ha la fortuna di essere in una posizione che lo favorisce dal punto di vista del commercio, per esempio sul progetto cinese della via della Seta attraverso il canale di Suez. Grazie a questo snodo le merci posso facilmente raggiungere il Golfo e tutti i paesi del Mediterraneo».

Il “buon scolaro”

Un secondo aspetto importante è legato alla reputazione dell’Egitto a livello internazionale. L’Egitto di al Sisi è il “buon scolaro” delle politiche di austerità: il governo ha dimostrato maturità nella gestione degli investimenti, i valori macroeconomici sono cresciuti e in questo contesto si rivela un paese stabile.

Dopo la crisi economica dovuta principalmente alla pandemia di Covid-19, il volume degli investimenti esteri in Egitto nel primo trimestre del 2021 è tornato a salire e ammonta a 29 miliardi di dollari. Lo riportano i media locali citando fonti del governo egiziano. Gli investitori stranieri avevano iniziato a uscire dal mercato del debito pubblico a causa dell’impatto della pandemia sui mercati, ma sono stati nuovamente attirati quando è tornata una certa stabilità durante il primo trimestre dell’anno fiscale in corso: secondo i dati di Trading economics l’Egitto ha uno dei tassi di interesse più alti al mondo ma, secondo la Banca centrale egiziana, nel 2020 i tassi sono scesi dal 12,25 per cento all’8,25 per cento, rendendolo molto più attraente per i potenziali investitori.

«Gli indicatori macroeconomici sono positivi (ma non quelli microeconomici) e permettono al paese di azzardare un po’ di più, non tanto sotto il profilo della spesa pubblica, ma in termini di tassazione sugli investimenti esteri», prosegue Mattia Giampaolo.

La ripresa economica negli ultimi due anni ha dimostrato una certa “maturità” nel saper gestire i prestiti e dunque una affidabilità capace di attrarre investimenti dall’estero come nel caso di Amazon.

Il boom dei call center

Non va dimenticato che di per sé l’Egitto, come altri paesi nordafricani, ha un’economia che si basa non su grandi produzioni, ma sull’offerta di servizi e logistica in senso stretto. Un aspetto che fa certamente gioco al colosso statunitense, sicuro di non trovare resistenze nel processo di insediamento. «Dal 2009 si è assistito al boom del call center – come Tim e Wind – che hanno in parte soddisfatto l’enorme richiesta di posti di lavoro, offrendo paghe quantomeno in linea con il salario minimo (circa 2.400 lire egiziane, 150 euro)». Non è un caso che, di fatto, Amazon riesca a negoziare direttamente con le municipalità, facendo accordi con gli amministratori locali – talvolta nazionali – per la nascita degli hub, riuscendo a trovare una facile una moneta di scambio.

In un paese in cui il tasso di disoccupazione sfiora il 26,54 per cento (fonte World bank 2019), l’avvento di aziende come Amazon suona come una manna dal cielo: accordo annunciato in pompa magna dal regime egiziano. La penetrazione del gigante della logistica è quindi cosa fatta con tanto di imponente cerimonia di inaugurazione.

Punti critici

Ma bisogna anche considerare l’impatto reale dell’azienda sul territorio, sia in termini occupazionali che come creazione del valore. Come ricorda Ilaria Masinara, campaign manager per Amnesty international Italia, «bisogna considerare che il problema di Amazon è quello di creare grandi cattedrali nel deserto che però non puntano a una vera valorizzazione delle risorse. Amazon non investe in know-how, non punta alla formazione del personale in competenze spendibili altrove. La formazione è fortemente incentrata sul tipo di lavoro richiesto stesso dal big dell’e-commerce e non vi sono particolari scatti di carriera».

Anche i numeri stessi dichiarati sui posti di lavoro messi a disposizione non rispecchiano spesso la realtà dei fatti: «Noi pensiamo ad Amazon come a un tutt’uno, in realtà l’azienda è fatta di tanti contractor e si basa sul sistema dell’outsourcing». «Amazon funziona come una matriosca – spiega Masinara – che appalta alcune mansioni come il servizio di call center ad aziende esterne». La narrazione secondo cui gli stipendi di Amazon sono in linea o sopra la media del settore non è sempre vera, va infatti ricordato che esiste anche chi guadagna meno di mille euro al mese per un lavoro full-time specializzato: stiamo parlando delle centinaia di addetti al portierato, impiegati da aziende esterne a cui Amazon appalta formalmente il servizio di sorveglianza, ma che – nei fatti – lavorano fianco a fianco dei dipendenti diretti di Amazon, dando pieno supporto al ciclo produttivo della logistica.

In questo contesto, Amazon non si assume una responsabilità diretta nei confronti di questi lavoratori, poiché sono assunti da società terze. Sono risorse facilmente licenziabili che hanno ancor meno tutele dei dipendenti diretti. Sono impiegati altamente sostituibili, con una prospettiva di lavoro di medio-breve termine.

I rischi per i lavoratori

Non c’è dunque un vero progetto di crescita della comunità che si sviluppa intorno a questi poli di logistica. Siamo ben lontani dai progetti che hanno caratterizzato lo sviluppo industriale, per fare un esempio, degli anni Novanta in Italia.

Come se non bastasse, nel corso dell’ultimo anno, Amazon ha beneficiato di un vertiginoso aumento dei profitti causato dalla crisi pandemica – ben consapevole dell’elevato numero di consegne effettuate negli ultimi mesi – senza però prendere atto del rischio per la salute e per la sicurezza corso dai propri lavoratori.

Nonostante i lavoratori di Amazon continuino ad andare incontro a grandi rischi per la propria salute e per la propria sicurezza, legati alla diffusione del virus Covis-19, l’azienda non demorde nel contrastare i tentativi dei lavoratori di organizzarsi in sindacati e avviare trattative collettive per migliorare le proprie condizioni. Già a partire dal 2014, negli Stati Uniti, i lavoratori di Amazon avevano iniziato a percepire l’esigenza di organizzarsi in sindacati, le cosiddette “unions”. Tuttavia solamente nel marzo del 2021, presso un enorme magazzino dell’Alabama, si è conclusa la votazione con cui quasi seimila lavoratori si sono pronunciati sulla possibilità di introdurre una rappresentanza sindacale all’interno del deposito Bhm1, aperto appena un anno fa. In tale occasione, Amazon ha posto in essere molteplici strategie al fine di contrastare l’eventualità di avere una rappresentanza sindacale nel suddetto deposito: si parla di pressioni da parte della dirigenza sugli impiegati e addirittura sulle autorità locali per un cambio della viabilità, in modo da ostacolare la comunicazione tra i lavoratori al termine del relativo turno di lavoro.

In un report intitolato “Amazon lasci i lavoratori organizzarsi in sindacati”, pubblicato da Amnesty international, emerge come Amazon non si sia limitata a contrastare i tentativi dei lavoratori di organizzarsi in sindacati negli Stati Uniti, ma l’abbia fatto anche in Europa, attraverso la minaccia di azioni legali.

In base a questi dati, non sorprende che l’Egitto risulti appetibile anche sotto questo aspetto. Se dagli anni Cinquanta i sindacati sono stati il motore del cambiamento sociale nel paese, con al Sisi sono diventati un nemico pubblico: almeno 200 lavoratori sono stati arrestati tra giugno 2016 e ottobre 2018. Lo denuncia l’ultimo rapporto dell’ong irlandese Front line defenders, che si occupa di difensori dei diritti umani. E ancora oggi, le organizzazioni sindacali non statali vengono continuamente osteggiate dal regime. In tale contesto, il controllo di Amazon sui lavoratori risulta certo di più semplice attuazione. Un altro problema in meno per la conquista dell’Africa e del medio oriente.

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