«Questa legislatura non ha più un percorso politico». Quim Torra ha la faccia di un leader della prima Repubblica, gli occhiali troppo grandi e il naso aquilino. Nella sua breve carriera istituzionale si è trascinato l'accusa di essere uno xefonobo e un personaggio incolore. Perde lo scranno più alto di un territorio in tumulto, proiettato verso l'indipendenza o verso il disordine. A spingerlo alle elezioni anticipate la concordia perduta con gli alleati e uno striscione appeso al balcone del palazzo della Generalitat. Lo scopo di questo era dimostrare solidarietà a chi sta pagando con la prigione il referendum del 2017 e la conseguente dichiarazione d’indipendenza. Secondo i giudici, il messaggio in esso contenuto avrebbe leso l’imparzialità del governo catalano.

Ora si va di nuovo al voto. Le hanno chiamate “elezioni atipiche”: il govern aveva chiesto di sospenderle, a causa della pandemia, ma il tribunale competente ha deciso che si facessero lo stesso. A rendere ancora più surreale questo appuntamento con le urne è lo stato della libertà d’espressione in Spagna, che rivela il suo volto deformato nei territori dove lo scontro e la discriminazione non si limitano ai soli contenuti politici. Il campanello d’allarme più recente è legato alla condanna a nove mesi del rapper catalano Pablo Hasél per apologia del terrorismo e ingiuria alla Corona: più di 200 artisti, tra cui Pedro Almodovar, hanno firmato un manifesto in sua difesa. Ma non è un caso isolato. Secondo l’organizzazione internazionale Freemuse nel 2017 la Spagna era in testa alla classifica dei paesi con il maggior numero di artisti arrestati davanti a Cina, Iran, Egitto e Turchia.

In tale contesto, gli uomini e le donne che più di tutti sembrano incarnare la persecuzione che alimenta questo conflitto sono i cosiddetti presos politics, i prigionieri politici. Sette alte cariche del governo catalano e due esponenti della società civile, che attualmente sono in semilibertà. I loro volti, stampati su flyer e adesivi, sono divenuti delle icone, assieme a quelli degli exiliats, gli esuli. A questi si sommano i represialiats, tutte le persone danneggiate dallo stato centrale in relazione al percorso verso l’indipendenza. Queste definizioni di parte sono divenute di uso comune per chiunque trovi ingiuste le condanne. La destra spagnola, invece, preferisce parlare di golpisti e di mafia separatista.

La disobbedienza civile

«Da Madrid hanno condotto quella che definiamo un’operazione di stato» dice Jordi Cuixart, «hanno rifiutato il rinvio (delle elezioni, ndr) con l’obiettivo di favorire l’astensione al voto, perché ogni volta che la partecipazione è stata elevata, l’indipendentismo e i partiti che si battono per l’autodeterminazione hanno ottenuto la maggioranza». Cuixart è uno dei nove presos politics. Ha visto nascere il suo secondo figlio mentre era in carcere. È il presidente dell’associazione culturale Omnium, «un movimento di disobbedienza civile pacifica» con oltre 180mila iscritti, che da anni porta avanti una discussione democratica in favore dell’indipendentismo catalano.

«Dobbiamo tenere presente che la maggiore avversità che abbiamo di fronte è l’avanzata dell’estrema destra incarnata dal partito di Vox» racconta con preoccupazione. Il partito di estrema destra è stato ammesso come “pubblica accusa” durante il processo ai leader catalani: i suoi legali sedevano non molto distanti dai giudici e avevano facoltà di interrogare gli accusati e i testimoni. Se pensa al futuro della Catalogna sorride. «Non vogliamo a tutti i costi una Catalogna indipendente – dice – vogliamo che sia rispettata la scelta della gente».

L’amnistia o l’indulto del governo di centrosinistra potrebbero risolvere il problema dei presos. «L’indulto proposto dal Psoe è solo una mossa elettorale, perché non c’è una reale volontà politica di farlo. La nostra lotta, dentro o fuori dal carcere, è quella per i diritti fondamentali» racconta con orgoglio. È una battaglia più ampia e che non si limita alla Catalogna, ma raggiunge anche le istituzioni europee. «La situazione che viviamo in Catalogna non si può scindere dalla crisi di valori dei dirigenti dell’Unione europea. Nel Mediterraneo le persone muoiono nella totale indifferenza. Assistiamo a situazioni paradossali in cui Josep Borrell difende Navalny davanti al ministro degli Esteri russo»: discutevano su chi avesse più prigionieri politici. Oggi, Jordi non ha paura di rientrare in cella ed essere di nuovo privo della sua libertà personale. In tre anni di prigione ha dato un senso soggettivo alla parola libertà. «Gramsci prima di essere ucciso ha chiesto a Tatiana di avere coraggio. Per me la libertà è avere coraggio ed essere felice dentro te stesso, in qualsiasi momento, che sia in carcere, in una manifestazione o in fabbrica, l’importante è preservare la libertà interiore».

«Uscirò a 70 anni»

«Ho partecipato in maniera ridotta alla campagna elettorale: possiamo uscire durante il giorno, ma la sera alle sette dobbiamo tornare in carcere». Dolors Bassa ha un volto dai tratti dolci, due grossi occhiali e i capelli corti e rossi. Era ministra del Lavoro, degli Affari sociali e della Famiglia nel governo catalano che promosse il referendum del 2017. Oggi è considerata una criminale dallo stato. La sua voce ha un tono allegro e deciso: «Siamo determinati a combattere per la gente del nostro paese». Secondo l’ex ministra catalana, il programma di Vox è «totalmente fascista», il che è agli antipodi con la natura del suo partito, che è «ecologista, femminista e repubblicano».
Nei più di mille giorni di prigione, Bassa ha letto circa 600 libri e ricevuto più di 800mila lettere. Quest’esperienza ha cambiato la vita della sua famiglia. La nipote di sei anni di Dolors «non ha vissuto male» la situazione, i suoi parenti hanno cercato di rendergliela accettabile. La sua storia è sentita in tutto il paese di 12mila anime da cui proviene, dove gli abitanti espongono striscioni per la sua libertà. Ricordando il suo percorso, dice che rifarebbe tutto da capo «ma diversamente, perché mai avremmo pensato che lo stato spagnolo potesse arrivare a incarcerare la sua gente per aver indetto un referendum».
«Nel momento in cui l’approvazione dell’amnistia dovesse fallire, noi puntiamo alla Corte europea dei diritti dell’uomo». Se sconterà interamente la condanna, uscirà a 70 anni. «Farò politica ma non vita istituzionale, quando uscirò di prigione ci sarà gente più giovane e competente». Del resto, secondo Dolors Bassa «la politica la facciamo ogni giorno».

Le famiglie coinvolte

La solidarietà internazionale nei confronti dei presos è una leva importante, che assume un significato rilevante per le famiglie coinvolte. Susanna Barreda è la moglie di Jordi Sànchez, ex presidente di Anc, un’associazione con circa 100mila iscritti in prima linea nella lotta per l’autodeterminazione.

Tre anni fa, la mole di lettere ricevute dai due Jordi, costrinse il carcere di Soto del Real a cambiare il sistema di organizzazione e trasporto della corrispondenza. Ogni Natale una persona invia a Jordi Sànchez della cioccolata dalla Svizzera: è qualcuno che non ha nulla a che fare col catalanismo, ma considera una violazione dei diritti fondamentali ciò che i presos hanno subito.

I presos sono già stati posti in semilibertà in passato, ma per varie ragioni, sono ritornati in cella. La percezione è quella di una situazione precaria, «molto ingiusta», secondo Susanna, che ricorda i due anni di carcerazione preventiva in attesa di giudizio. Nonostante gli annunci di riforme legali che interesserebbero da vicino i presos, Susanna pensa che il governo Sànchez «non cambierà nulla» senza un guadagno politico. Fare delle concessioni ai catalani sarebbe impopolare in buona parte del paese. Tuttavia, le recenti dichiarazioni di Pablo Iglesias sul fatto che la Spagna non sia una democrazia «piena» lanciano un segnale importante.

La figlia più piccola di Jordi Sànchez aveva dieci anni, quando il padre entrò in carcere, adesso ne ha 14. La pandemia ha ristretto radicalmente i contatti delle famiglie con tutti i detenuti, presos compresi. I parenti hanno trovato la forza di andare avanti, nonostante tutto. «Questa lotta ha avuto un riconoscimento sociale molto importante» racconta Susanna «io direi che tra il 70 e l’80 per cento della popolazione in Catalogna non è d’accordo con la carcerazione di Jordi». Con determinazione conclude: «La vita, a volte, ti colpisce violentemente e non hai molte opzioni: o ti lasci andare o continui».

© Riproduzione riservata