Prima le buone notizie condite con un po’ di ottimismo sulle previsioni economiche in calo e poi, in cauda venenum, cioè il monito a non calcare troppo la mano sul cosiddetto de-risking, o decoupling, cioè la manovra politica, prima che economica, di graduale allontanamento dell’occidente stanco della dipendenza dalle catene di forniture cinesi.

Così il premier cinese, Li Qiang, ha prima affermato che «la Cina è sulla buona strada per raggiungere, nel 2023, la crescita di Pil del 5 per cento», obiettivo fissato dal Politburo del Partito comunista cinese all’inizio di quest’anno. «Per tutto l’anno, dovremmo raggiungere l’obiettivo di circa il 5 per cento di crescita economica prefissato», ha detto Li ai 1.500 delegati presenti all’apertura della Summer Davos. Si tratta dell’incontro annuale del World Economic Forum che si svolge questa settimana dal vivo nella città portuale di Tianjin, nel nord della Cina, per la prima volta in quattro anni.

Ma dopo l’annuncio di una ripresa della corsa della “manifattura del mondo”, che per la verità ha costretto la Banca centrale cinese ad abbassare i tassi di interesse di riferimento in controtendenza con tutte le altre banche del mondo per dare ossigeno a una produzione che stenta a ripartire a causa della debolezza della domanda interna e dell’export, il premier cinese Li Qiang ha criticato duramente la volontà occidentale, soprattutto americana, che tende a limitare i rapporti commerciali con Pechino. Anche per dare un segnale di forte insofferenza verso una politica estera cinese sempre più assertiva in Asia, nello stretto di Taiwan, ma anche in Europa, nel sostegno alla Russia nel conflitto in Ucraina e in medio oriente.

Li Qiang ha rinnovato il mantra della cooperazione internazionale che lo stesso presidente Xi Jinping aveva agitato a Davos qualche anno fa in contrapposizione alle politiche protezionistiche di Donald Trump. Il premier cinese ha avvertito l’occidente, tra cui l’Italia che è l’unico paese del G7 ad avere firmato un accordo per la Via della seta, che i tentativi di riduzione del rischio verso la Cina e i tentativi di delocalizzare in altre aree dell’Asia, come il Vietnam o l’India del premier Narendra Modi, sono da considerarsi come una «falsa proposta» destinata a fallire.

La tigre di carta

Sarà così? Il monito del premier cinese pare invece mostrare tutta la debolezza della Cina che si sta manifestando come un paese che non riesce a tornare ai livelli di produzione pre Covid e sta rischiando di indebolirsi sempre di più a causa di politiche estere costose e destabilizzanti.

Non a caso il renminbi cinese è sceso ai minimi da mesi rispetto al dollaro a causa delle preoccupazioni per il rallentamento della crescita interna e delle esportazioni. Ovviamente la svalutazione del cambio aiuta l’export cinese (la cosiddetta svalutazione competitiva un tempo appannaggio della lira italica) ma aggrava i problemi di quelle società, come quelle immobiliari, che si sono indebitate in valuta estera. A preoccupare gli analisti sono soprattutto i fondamentali dell’economia cinese.

Yellen fuori dal coro

Ma non tutti vogliono spingere sul de-risking cinese. La Cina e gli Stati Uniti «mantengono una comunicazione per il dialogo e gli scambi a vari livelli». Ha risposto così la portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, a una domanda sulle indiscrezioni di stampa su un imminente viaggio della segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen.

Secondo il Washington Post Yellen – convinta che il decoupling con la Cina sarebbe «disastroso» anche per gli Usa – dovrebbe recarsi a Pechino la prossima settimana. Nei giorni scorsi è stato in Cina il segretario di Stato Usa, Antony Blinken che invece è per una linea più dura in materia economica. Per cercare di fare pressioni sulla Casa Bianca, Pechino ha invitato numerosi esponenti del gotha finanziario ed economico americano, tra cui: il fondatore di Microsoft, Bill Gates, il ceo di Apple, Tim Cook, il capo di Tesla, Elon Musk e Jamie Dimon, ceo di JPMorgan Chase, la banca di sistema più significativa oggi negli Stati Uniti.

Il presidente cinse Xi Jinping avrebbe tentato di convincere la business community Usa a non abbandonare gli investimenti in Cina ma, come ha ricordato Gideon Rachman sul Financial Times, «il disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina è appena iniziato. La logica aziendale è stata sostituita dalla rivalità strategica». Questo è il punto di svolta che Pechino non sembra aver compreso fino in fondo.

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