La nuova via della Seta sarà «più piccola e verde». Lo slogan coniato dal Partito comunista per il terzo forum con cui Pechino celebra l’anniversario di quella che ufficialmente si chiama Belt and Road Initiative (Bri) riassume la trasformazione del piano infrastrutturale globale lanciato da Xi Jinping nel 2013.

Finora sono stati investiti 1.000 miliardi di dollari, ma l’altolà, immediato, degli Stati Uniti, seguiti dall’Unione europea, e il rallentamento della seconda economia del pianeta hanno imposto il dimezzamento dei finanziamenti della Export-Import Bank of China, incanalati ora soprattutto verso Africa, Sud-est asiatico, Asia centrale e Medio Oriente.

All’appuntamento, che si conclude mercoledì, partecipano 130 paesi, in un clima segnato dalla crisi di Gaza. E dall’arrivo di Vladimir Putin, sbarcato martedì mattina a Pechino per il primo viaggio al di fuori dello spazio ex sovietico da quando, il 24 febbraio 2022, ha ordinato l’invasione dell’Ucraina.

A ogni incontro tra i due leader (quello di mercoledì sarà il quarantunesimo in quattro anni), Putin rivolge a Xi sempre più dolci blandizie, che rivelano l’asimmetria della partnership tra i due paesi confinanti, a tutto vantaggio della Cina.

Stavolta, dalla tv cinese, ha assicurato che la Bri è «diversa da altri progetti dal sapore coloniale, perché propone cooperazione e opportunità, non impone nulla agli altri». È un fatto però che – con la Russia impantanata in Ucraina – la Bri avanza in regioni, come l’Asia centrale e il Medio Oriente, nelle quali si sta indebolendo l’influenza russa. Ieri, ad esempio, Xi si è accordato con il suo omologo Kassym-Jomart Tokayev per nuovi progetti congiunti di sfruttamento delle risorse energetiche del Kazakistan.

Pechino ha annunciato che questa settimana sarà in Medio Oriente il suo inviato, Zhai Jun, per «coordinarci con le varie parti per un cessate il fuoco, per proteggere i civili, alleviarne le sofferenze e promuovere negoziati di pace». Putin lunedì ha telefonato al premier Benjamin Netanyahu che, in attesa di ricevere oggi Joe Biden a Gerusalemme, ha tagliato corto: «Israele non si fermerà fino a quando non avrà distrutto le infrastrutture militari e amministrative di Hamas».

Le opportunità nella crisi

L’assedio di Gaza distrae l’attenzione internazionale dalla guerra di Putin in Ucraina, mentre Pechino deve trovare il modo di spegnere le fiamme nell’area dalla quale arriva gran parte delle sue importazioni di greggio e che ha provato a stabilizzare tessendo una tela diplomatica culminata il 6 aprile scorso nella storica stretta di mano tra iraniani e sauditi a Pechino.

Come in occasione dell’invasione dell’Ucraina, la crisi di Gaza sta riproponendo la divisione tra l’occidente, egemonizzato dagli Stati Uniti e schierato con Israele, e il sud globale, che segue la Cina che non condanna Hamas, critica la risposta di Netanyahu al massacro del 7 ottobre e chiede la nascita di uno stato palestinese.

La leadership di Pechino è abile a coglierne le opportunità che si celano in ogni crisi. Quella di Gaza le serve a promuovere la sua idea di mondo “multipolare”. E tanti paesi presenti al forum sulla Bri (Egitto, Brasile, Sudafrica, Indonesia, tra gli altri) sono stati pronti a sostenere la sua linea “controcorrente” e le sue ambizioni negoziali.

In un colloquio con il segretario di Stato americano, Antony Blinken, il presidente egiziano al-Sisi ha usato la stessa espressione di Wang Yi: l’operazione contro Gaza ha superato il «diritto di autodifesa» e si è trasformata in una «punizione collettiva». La risoluzione – che non condanna Hamas – presentata dalla Russia, ha spaccato il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ottenendo il voto favorevole di Cina, Emirati Arabi, Mozambico, Gabon, l’astensione di Albania, Brasile, Ecuador, Ghana, Malta e Svizzera, e il voto contrario di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Giappone.

Graham Allison, il teorico della “Trappola di Tucidide”, ha dichiarato a Reuters che «negli ultimi dieci anni, Xi ha costruito con la Russia di Putin l’alleanza non dichiarata più importante al mondo». Anche gli ultimi dati economici sembrerebbero dargli ragione. Il mese scorso, mentre sono calate le esportazioni cinesi verso tutti i grandi blocchi (Asean -15,8 per cento, 44 miliardi di dollari; Stati Uniti -9,3 per cento, 46 miliardi di dollari; Unione europea -11,6 per cento, 41,5 miliardi di dollari), continuano ad aumentare quelle verso la Russia (+20,5 per cento, 9,6 miliardi di dollari).

La partita della Striscia

C’è però chi sottolinea che con il comune “nemico” – Washington – Mosca e Pechino hanno relazioni molto diverse: a differenza di quella russa, l’economia cinese resta intrecciata a quella statunitense e gli Usa sono un avversario che, militarmente, Pechino teme più di Mosca.

Negli ultimi giorni il senatore statunitense Chuck Schumer, in visita a Pechino, e il segretario di Stato Blinken, hanno chiesto rispettivamente a Xi Jinping e Wang Yi di convincere l’Iran a rimanere fuori dal conflitto. Mentre resta in piedi la possibilità di un incontro Xi-Biden al vertice dell’Apec di San Francisco, il mese prossimo.

Ieri il comandante Daniel Hagari ha rivelato che il gabinetto di guerra presieduto da Netanyahu ritiene che lo status di Gaza dopo l’annunciata offensiva di terra debba diventare un «problema globale». E Pechino ha segnalato chiaramente di voler essere parte della soluzione.

Mentre resta da vedere se vorrà concedere ulteriori aperture a Mosca. A partire dall’accordo per la costruzione del gasdotto “Power of Siberia-2”, che porterebbe in Cina il gas proveniente dalla penisola siberiana di Yamal, che in passato aveva servito il mercato europeo.

Putin si è presentato a Pechino assieme ai capi dei colossi energetici russi Gazprom e Rosneft, Alexei Miller e Igor Sechin, oltre a quelli di grossi gruppi bancari. Il nuovo impianto attraverserebbe la Mongolia e avrebbe una capacità annua di 50 miliardi di metri cubi, che andrebbero ad aggiungersi ai 38 miliardi di metri cubi che il “Power of Siberia” attualmente operativo dovrebbe raggiungere entro il 2025.

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