In America stiamo per toccare un altro triste primato nella lotta al Covid-19. Con circa mille morti e 40mila nuovi casi al giorno, presto raggiungeremo un totale di 200mila decessi. Per la fine dell’anno, secondo le ultime stime dell’università di Washington, potremmo arrivare a 400mila. Gli Stati Uniti hanno solo il 4 per cento della popolazione mondiale ma circa un quarto del numero di positivi e delle morti accertate da Covid-19. In realtà questi numeri sono ampiamente sottostimati. Da un confronto con i decessi nello stesso periodo del 2019 emerge che in molti stati il numero delle vittime potrebbe essere superiore anche del 50 per cento rispetto a quello ufficiale. Ma com’è possibile che un virus migliaia di volte più piccolo di un granello di polvere abbia finito per umiliare in questo modo la nazione più potente del pianeta?

L’America si è scoperta improvvisamente vulnerabile. Il potere politico, le risorse economiche e le conoscenze scientifiche finora sono serviti a poco. La nazione più ricca del mondo ancora non riesce a fare tutti i test di cui avrebbe bisogno per identificare i casi positivi. Come si concilia questa immagine di vulnerabilità con l’idea di forza, quasi di invincibilità, che la maggior parte degli americani ha del proprio paese? Questa idea, nota anche come “eccezionalismo americano”, è vecchia di quattrocento anni. È arrivata qui con i padri pellegrini della Mayflower e nel tempo si è radicata nella società.

L’eccezionalismo è la convinzione di essere in qualche modo al riparo dal male e dalla storia. È una immagine di superiorità, il sentirsi investiti di una missione profetica. È il credere di essere un popolo eletto, scelto da Dio: God bless America. La consapevolezza di incarnare un modello di successo che suscita inevitabilmente l’ammirazione e l’invidia del mondo. Noi siamo «la città splendente sulla collina», dicevano i primi coloni citando il Vangelo, un’espressione cara a tutti i presidenti da John Fitzgerald Kennedy a Ronald Reagan, da George W. Bush a Barack Obama. Questa idea si traduce in un atteggiamento ottimista, orgoglioso, orientato al futuro, e nella certezza di operare sempre nel bene.

Un vantaggio sprecato

Eppure, questa convinzione, che in passato aveva prodotto atti di stoicismo e favorito reazioni fulminee, come dopo l’11 settembre, questa volta ci ha portato a minimizzare, a sottovalutare e a non prepararci. A febbraio avevamo un vantaggio temporale non indifferente rispetto alla Cina e all’Italia, ma lo abbiamo sprecato. E anche quando il lockdown è finalmente cominciato, molti stati non hanno monitorato il rispetto delle misure anti Covid-19. Il virus è stato politicizzato dai governatori e dai politici repubblicani, a cominciare dal presidente Donald Trump che per mesi non ha voluto indossare la mascherina e si è schierato apertamente dalla parte di chi chiedeva la riapertura immediata del paese. A inizio febbraio Trump diceva agli americani che il bel tempo in aprile avrebbe indebolito il virus. Venti giorni più tardi diceva che l’epidemia sarebbe scomparsa per miracolo. Nei giorni successivi lamentava che le critiche sui ritardi e sulla sottovalutazione del virus erano una bufala messa in giro dai democratici. E oggi scopriamo dal nuovo libro di Bob Woodward, Rage, che il presidente già il 9 febbraio sapeva che il virus era letale. «Peggiore della peggiore influenza» aveva detto al giornalista in una intervista telefonica, aggiungendo di aver voluto minimizzare per non diffondere il panico. Intanto però il paese gli aveva creduto. Abbiamo perso tempo, non ci siamo protetti né preparati e a inizio aprile, solo qui a New York, si ammalavano diecimila persone al giorno e ne morivano quasi mille.

Sarebbe facile però ridurre tutto all’inettitudine di un singolo. La sottovalutazione non è solo un problema di leadership. È l’idea condivisa da molti in America di essere comunque al riparo dalle forze che segnano il destino degli altri paesi. È il rito celebrativo delle nostre virtù – la libertà individuale, il genio creativo, il duro lavoro – e la conseguente attitudine a ignorare i propri fallimenti e a condannare duramente il comportamento degli altri. Una convinzione che, durante la Guerra fredda, è diventata affermazione di superiorità morale della democrazia liberale e del libero mercato. E negli anni della guerra in Afghanistan e in Iraq si è trasformata nel dovere di esportare la democrazia in medio oriente, anche con le bombe. Nei giorni del virus, invece, l’eccezione di essere americani, mi piace chiamarla così, si è banalmente tradotta nella convinzione che qui il virus non sarebbe mai arrivato.

Negli ultimi vent’anni, l’eccezionalismo americano è stato messo a dura prova. L’idea di essere invincibili ha cominciato a vacillare subito dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre. Ed è stata fiaccata ancora di più dalla crisi economica del 2008, quella sì made in Usa, non nei laboratori come qualcuno dice oggi del virus, ma nei quartier generali delle banche. Un contagio finanziario che abbiamo diffuso rapidamente in tutto il mondo. L’eccezionalismo porta politici e comuni cittadini a dire «siamo gli Stati Uniti d’America e ne usciremo più forti di prima». Ma il moto d’orgoglio di oggi segue purtroppo l’ingenuità e l’arroganza di ieri. Sfruttare adeguatamente il vantaggio temporale avrebbe aiutato a ridurre il contagio e a salvare vite umane.

In inglese, la fase storica che stiamo vivendo si chiama critical juncture. Si tratta di un momento spartiacque dal quale può dipendere il futuro del paese. Ce ne sono stati molti altri nella storia degli Stati Uniti e tutti hanno disegnato traiettorie e definito scenari. Vi immaginate, per esempio, cosa sarebbe accaduto se durante la guerra di indipendenza, Paul Revere, patriota e rivoluzionario americano, avesse galoppato tutta la notte per avvertire i coloni che arrivavano gli inglesi e quelli gli avessero risposto che l’arrivo del nemico era una bufala? La storia probabilmente avrebbe preso un altro corso. Alla fine, l’amministrazione americana si è decisa ad armarsi contro il virus. Ma per uscire più forti di prima da questa congiuntura non basta continuare a tracciare il contagio e approvare un secondo stimolo fiscale. Bisogna mettere mano alla struttura della società, occuparsi delle discriminazioni e delle disuguaglianze, ridurre la povertà, ripensare il sistema sanitario. Ad ammalarsi in questi mesi sono stati soprattutto gli ispanici e gli afroamericani, cittadini dai redditi bassi, spesso privi di assicurazione sanitaria (sono in tutto 30 milioni gli americani senza copertura secondo il Census bureau) colpiti dal razzismo sistemico. Ma anche la classe media bianca è in sofferenza. La mancanza di risparmi e la rapidità con la quale si perde il lavoro negli Stati Uniti spiegano perché da marzo più di 40 milioni di persone abbiano richiesto il sussidio di disoccupazione.

Pietà e commozione

L’America nel corso della sua storia ha suscitato i sentimenti più disparati nel resto dei paesi del mondo: amore e odio, ammirazione e disprezzo, speranza e paura, benevolenza e invidia. Ma mai prima di oggi aveva suscitato un così ampio sentimento di compassione. E siamo prima di tutto noi cittadini a provare pietà e commozione per quello che sta accadendo. Sentimenti che a questo popolo, tutto resilienza e orgoglio, non sono poi così familiari. Io stessa, lo scorso agosto, partecipando al Festival di scrittura di Ravenna, mi sono inaspettatamente commossa raccontando al pubblico gli ultimi mesi passati a New York: i 22mila morti solo in città, i camion frigoriferi, le fosse comuni, le file davanti alle banche del cibo, il coprifuoco, i saccheggi, i manifestanti malmenati dalla polizia ma anche i poliziotti in ginocchio insieme alla gente in piazza.

Se tutto rimane come è oggi, la società americana resterà vulnerabile a nuove crisi. In questo non facciamo affatto eccezione rispetto ad altri. Se si vuole continuare a essere «la città splendente sulla collina» non si può continuare a lasciare indietro una parte del Paese. Rimanere inerti vuol dire solo arrendersi ad un lento e inesorabile declino.

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