Qualche settimana fa, nell’alto Egitto, qualcuno deve avere pensato che fosse arrivato il giorno del giudizio. Dopo piogge torrenziali e raffiche di vento, gli abitanti della zona di Assuan si sono visti invadere da migliaia di scorpioni velenosi, stanati dalle precipitazioni. Una sorta di piaga d’Egitto 2.0, con artropodi al posto delle locuste, che nel giro di poche ore ha mandato all’ospedale oltre 500 persone e ne ha uccise tre (anche se in seguito è emerso che le morti sarebbero state dovute a folgorazione da cavi elettrici esposti).

Sarà nello spirito di questo millenarismo, o sarà per più prosaici calcoli geopolitici, che l’Egitto ha voluto con forza la Cop27, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, prevista per il novembre 2022 a Sharm el-Sheikh. Alcuni attivisti per i diritti umani hanno fatto notare l’ipocrisia della scelta di affidare le “chiavi” della prossima Cop a un dittatore come Abdel Fattah al-Sisi, uno che di solito, dopo aver sbattuto in cella i dissidenti politici, le chiavi le getta via a tempo indeterminato (lo sanno bene, loro malgrado, Patrick Zaki e gli altri 60mila prigionieri politici del regime).

Un’enorme occasione

Per quanto possa apparire paradossale, però, quella della Cop potrebbe essere una grande occasione per promuovere la causa dei diritti umani: per le due settimane della conferenza, infatti, il governo locale cede di fatto la propria giurisdizione all’interno di tutto il perimetro dell’evento, uno spazio pattugliato dal personale di sicurezza Onu che – a seconda della conformazione – può andare ben oltre i padiglioni riservati ai negoziati.

Chi entra nei padiglioni, poi, lo decide la Convenzione quadro (Unfccc), e nulla, almeno in linea teorica, vieta all’agenzia organizzatrice di accreditare attivisti e giornalisti egiziani.

Insomma, organizzando la Cop il regime egiziano si espone a possibili contestazioni in casa propria, un paese in cui, vale la pena di ricordarlo, ogni assembramento era vietato già ben prima della pandemia, anche fosse per assistere alle gesta del calciatore Mohamed Salah davanti al televisore di un bar. È un rischio che al-Sisi, però, pare essere disposto a correre in cambio della legittimità internazionale che la conferenza può conferirgli.

Quello del clima è uno degli ambiti in cui il generale sta provando a rifarsi un’immagine agli occhi dell’Occidente, come dimostra la nuova strategia per la sostenibilità presentata a Glasgow dal ministro dell’ambiente Yasmine Fouad.

Per fare bella figura a Sharm el-Sheikh, pare che il comitato organizzatore (presieduto dal primo ministro Mostafa Madbouly in attesa della nomina del presidente di turno della Cop, tradizionalmente espresso dal paese ospitante) voglia coinvolgere Tamer Mursi, re dei produttori cinematografici e strenuo sostenitore di al-Sisi.

L’altro ambito chiave è quello dei diritti umani, l’unico in cui ogni tanto al-Sisi deve incassare le ramanzine occidentali. Ma il generale sa bene che quello che interessa ai partner occidentali è l’atteggiamento di facciata, e si regola di conseguenza: se da una parte mette fine allo stato d’emergenza che durava da quattro anni, rilascia qualche prigioniero politico e vara la strategia egiziana per i diritti umani (criticata da vari attivisti), dall’altra accresce ulteriormente le proprie prerogative legali con la scusa del controllo dell’ordine pubblico, inaugura un nuovo mega penitenziario diffondendo un grottesco video in cui il carcere appare come un centro benessere per la riabilitazione dei detenuti, e fa una trionfale apparizione alla fiera degli armamenti del Cairo.

Fiera tra i cui sponsor principali, a proposito di ipocrisia, figura Fincantieri, e tra i partecipanti più in vista Leonardo (entrambe controllate dallo stato italiano). Anche loro, come Matteo Renzi, conquistate dal “rinascimento” saudita.

Il #metoo egiziano

Eppure, nonostante tutti questi lati oscuri, l’Egitto dimostra quanto la realtà sociopolitica dei regimi non sia mai monolitica e nelle pieghe della repressione si aprano spiragli di progresso. Un esempio emblematico è quello dei diritti delle donne: non è un’esagerazione affermare che l’Egitto stia vivendo un proprio MeToo in versione araba, in cui le donne denunciano apertamente i propri molestatori, la stampa li sottopone a un’implacabile gogna mediatica e le autorità li sanzionano con pene talmente esemplari da far supporre talvolta un uso propagandistico della magistratura (non sono rari gli ergastoli e, nei casi più gravi, le condanne a morte).

Un processo emancipatorio che si riscontra anche a livello legale e istituzionale: il ministero della Salute, ad esempio, sembra voler fare sul serio sulla lotta alla mutilazione genitale femminile, pratica ancora piuttosto diffusa soprattutto nelle zone rurali.

A perseguire i medici compiacenti potrebbe contribuire la crescente presenza di donne nella magistratura, tendenza confermata dalla nomina di 98 donne al Consiglio di stato, organo supremo della giustizia amministrativa finora a esclusiva composizione maschile.

A questo si aggiunge il vivace dibattito pubblico, in alcuni casi sfociato in disegni di legge, su temi tradizionalmente discriminatori quali il diritto matrimoniale e quello successorio.

Certo è prematuro dire se si tratti di cambiamenti superficiali o sostanziali, ma è evidente che al-Sisi ha tutto l’interesse a passare per paladino arabo delle questioni di genere. Presentatosi fin da subito come nemico dell’oscurantismo religioso, il presidente sostiene apertamente che «il capo di stato è responsabile di tutto, compresa la religione».

Così, tra un braccio di ferro e l’altro, anche la massima autorità religiosa del paese, l’Imam della moschea-università di al-Azhar, è salito sul carro, condannando pubblicamente le molestie e formulando interpretazioni “ammorbidite” dei versetti coranici sulle libertà femminili.

L’Egitto e l’Africa

Di questi altri temi, per evitare imbarazzi in casa propria, al-Sisi dovrà rendere conto sulla strada di Sharm el-Sheikh. Se si dimostrerà un partner credibile, potrà beneficiarne ben oltre i limiti della conferenza: in una Cop che – vista l’urgenza della crisi climatica – si preannuncia tanto importante quanto quella da poco conclusasi, il generale potrà fare leva sul proprio ruolo di anfitrione per focalizzare l’attenzione internazionale sui punti prioritari della propria agenda.

Primo fra tutti la “Diga del rinascimento” etiope, controversia nella quale si intersecano geopolitica, giustizia ambientale, sostenibilità e politiche energetiche e che, tanto per cambiare, interessa da vicino anche l’Italia, nello specifico la Salini Impregilo incaricata della costruzione.

Non solo: se l’Egitto, in qualità di paese africano climaticamente vulnerabile, riuscirà a portare avanti le istanze dei paesi del sud del mondo (su tutte i meccanismi di finanziamento per l’adattamento climatico e per le cosiddette “perdite e danni”), al-Sisi potrà inserirsi nel solco dell’ex presidente egiziano Gamal Abdel Nasser ergendosi a novello leader dei “non allineati”.

Il che, in un mondo multipolare, significa essere in grado di ricevere gli aiuti statunitensi mentre si accolgono gli investimenti cinesi, ci si fa costruire la prima centrale nucleare del paese dalla russa Rosatom e si instradano accordi di collaborazione nel settore bellico con, tra gli altri, Italia, Francia e Corea del sud.

Insomma, a dispetto dell’immagine di stasi soffocante che arriva sul nostro lato del Mediterraneo, la realtà egiziana è molto dinamica ed effervescente, con forze sociali e politiche che navigano le insidiose acque del regime provando anche ad andare controcorrente.

Tutto si muove, persino le antiche mummie trasportate con gran fanfara verso il nuovo museo egizio del Cairo o sull’antica strada che collegava i templi di Karnak e Luxor, recentemente riaperta in una sfarzosa cerimonia. Si muove anche il regime stesso, che prova a darsi slancio internazionale con un mix di collaborazioni militari, partnership energetiche e iniziative ambientali. E che alla Cop27 affronterà un banco di prova forse decisivo.

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