La migliore strategia per i repubblicani americani sarebbe quella di guardare avanti: i consensi per il presidente Joe Biden sono sempre bassi, l’inflazione continua ad essere un problema, così come il caro benzina e la crisi migratoria al confine tra Texas e Messico.

Infine, c’è anche un sostanziale accordo nell’opporsi all’istituzione di obblighi per i vaccini e l’uso della mascherina. Sembrerebbe quindi facile la conquista della maggioranza in entrambi i rami del Congresso il prossimo novembre 2022 con le elezioni di metà mandato.

Le vicende interne del partito invece riportano tutto alle ultime elezioni presidenziali del 2020, il cui risultato non è mai stato accettato dallo sconfitto presidente Donald Trump e che hanno portato all’assalto dei manifestanti al Campidoglio il 6 gennaio 2021.

Nei giorni immediatamente successivi, sembrò che la carriera politica di The Donald fosse finita. È accaduto l’opposto. Quel giorno è diventato una sorta di mito fondativo per i militanti che hanno il culto dell’ex presidente ma anche per gli estremisti che aderiscono alla teoria complottista di Qanon, secondo la quale Trump è stato illegalmente deposto da una congrega globale di satanisti capeggiata dai dem.

Arriviamo al 4 febbraio scorso: durante la riunione del Comitato nazionale repubblicano a Salt Lake City per decidere le strategie da adottare per vincere a novembre, uno dei membri dell’organizzazione, David Bossie del Maryland, decide di proporre una mozione per condannare due deputati al Congresso, Liz Cheney e Adam Kinzinger, per aver partecipato ai lavori della commissione d’inchiesta sull’assalto al Campidoglio, finanziare Harriet Hageman, la sfidante di Cheney alle primarie in Wyoming e considerare i due esponenti politici, di fatto, fuori dal partito.

La presidente del Comitato, Ronna Romney McDaniel, la mette verbalmente ai voti e passa senza registrare opposizione. C’è solo un problema: nella risoluzione si specifica che Cheney e Kinzinger avrebbero partecipato a una persecuzione politicamente orchestrata dai dem contro dei comuni cittadini che «esprimevano le loro opinioni politiche».

La reazione

La frattura è cominciata la sera stessa: due esponenti del partito hanno espresso la loro contrarietà alla mozione, che non avevano potuto contestare in prima battuta. Henry Barbour del Mississippi e Bill Palatucci del New Jersey si sono chiesti se fosse necessario farsi coinvolgere così pesantemente in una disputa elettorale di uno stato piccolo come il Wyoming.

Non solo: pensano che la mozione faccia passare in secondo piano il messaggio del partito contro l’amministrazione di Biden, mostrando invece una formazione «ostaggio dell’ex presidente Trump», per usare le parole di Liz Cheney dopo aver saputo della condanna formale.

In effetti non si è parlato affatto delle proposte repubblicane, ma solo della condanna a Cheney e Kinzinger. La presidente Romney McDaniel sostiene che la decisione sia stata presa senza sentire Trump, ma anche se fosse vero, la sensazione è che un organismo che dovrebbe essere neutrale e sostenere indistintamente tutti gli uscenti sia uscito pesantemente dal suo ruolo.

Il primo a esprimersi è stato Mitt Romney, zio della presidente del Comitato nazionale repubblicano: la decisione è stata, a suo modo di vedere, «infelice, per non dire stupida».

Si sa però che Romney è isolato nel comune sentire repubblicano: ha votato per entrambi gli impeachment di Trump ed è sempre stato estremamente lontano dall’ex presidente.

La posizione di McConnell

Sorprende che le critiche siano arrivate da altri esponenti normalmente più cauti: a partire dal texano John Cornyn, che preferisce evidenziare che nelle risoluzioni approvate nella riunione di Salt Lake City ci sia anche quella di «impegnarsi per vincere le elezioni. Solo che certe altre rendono questo più difficile».

Giudizio a cui si è associato anche il numero due del gruppo, John Thune, che ha detto che bisogna guardare «avanti e non indietro». Fino al giudizio tranchant dello stesso leader Mitch McConnell.

Con poche, semplici parole, ha detto che il 6 gennaio 2021 «abbiamo assistito a una violenta insurrezione per impedire il trasferimento dei poteri da un’amministrazione all’altra». Non solo, McConnell ha attaccato direttamente la struttura del Comitato: «Non è compito del Comitato nazionale decidere chi sostenere. Il loro ruolo dovrebbe essere di sostenere chi corre per essere rieletto, senza badare alle sue posizioni».

Queste parole vengono da chi è da tempo nel mirino dell’ex presidente, che non ha fatto mistero della sua volontà di rimpiazzarlo come leader del Senato.

Preferirebbe qualcuno come il suo corrispettivo alla Camera, Kevin McCarthy, che sulla vicenda invece ha preferito tacere. Si dice però che anche lui non abbia apprezzato la decisione, che gli rende difficile la vita e potenzialmente lo priverebbe di due voti con cui contrastare i provvedimenti approvati dall’esigua maggioranza dei democratici di Biden.

Una volta di più, si dimostra che l’ex presidente è il miglior alleato del suo successore, che grazie a queste dispute interne degli avversari può tirare il fiato e concentrarsi sulla sua agenda per l’ultimo anno in cui potrà contare su una maggioranza in entrambe i rami del Congresso.

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