Quello di Gezi sembra un parco come tanti, un’area verde nel cuore di Istanbul in cui famiglie, gruppi di amici o lettori solitari possono trovare un po’ di tranquillità e godersi l’ombra degli alberi, a pochi metri di distanza dalla caotica Istiklal Cadesi, la via dello shopping affollata di turisti e vetrine ammiccanti. Gezi però non è sempre stato così tranquillo. Nel 2013 il parco è stato il cuore di un importante movimento di protesta nato per difendere l’area verde della città e trasformatosi in poco tempo in una contestazione di portata nazionale contro l’allora primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Il movimento è stato brutalmente represso dalla polizia, ma l’incubo di una nuova Gezi terrorizza tuttora il governo. Nove anni dopo, una parte del parco è ancora circondata da alte transenne su cui svetta il simbolo della polizia ed è facile imbattersi in una coppia di agenti passeggiando per i viali alberati. Lo stato di allerta è così alto che non appena una campagna di mobilitazione sui social inizia ad avere successo il parco viene immediatamente chiuso al pubblico per prevenire assembramenti.

Il sistema giudiziario

Foto AP

Ma le conseguenze delle proteste del 2013 si fanno sentire soprattutto nelle aule di tribunale in cui giornalmente vanno in scena processi farsa ai danni di attivisti, giornalisti, accademici e avvocati. Le accuse spaziano dalla messa in pericolo dell’ordine pubblico al tentativo di sovvertire lo stato, fino al terrorismo, capo di imputazione usato in più del 50 percento dei casi.

Da Gezi e ancora di più dopo il fallito golpe del 2016, il sistema giudiziario è usato come arma per mettere a tacere ogni forma di opposizione, segno dell’asservimento della magistratura ai desideri del governo. «In passato veniva quantomeno mantenuta una parvenza di rispetto delle leggi e della divisione dei poteri, ma adesso non è più così», spiega Mümtaz Murat Kök, che con i suoi colleghi del Media and Law Studies Association monitora dal 2017 i processi contro la stampa.

L’obiettivo è creare un clima di tensione costante ed impartire una lezione a coloro che osano sfidare Erdogan, per evitare che altri seguano il loro esempio. Così facendo, si cerca prima di tutto di spingere i giornalisti verso l’autocensura.

«Come in ogni regime autocratico, gli attacchi contro la stampa servono a far sì che la gente non sia informata”, afferma Kök. Con conseguenze negative anche per la tenuta democratica del paese. Ad oggi sono 40 i giornalisti in carcere e altri 50 sono sotto processo, come riportato anche nei diversi fascicoli dalla copertina gialla e nera che l’attivista ha davanti a sé mentre parla.  

Di recente l’associazione ha anche iniziato a seguire i casi che riguardano la violazione della libertà di riunione, principio tutelato dalla costituzione ma fortemente limitato dalle leggi nazionali approvate negli ultimi anni.

«Il governo può contenere l’opposizione in parlamento, ma ha paura di non riuscire a controllare i cittadini, per questo criminalizza le strade e mostra tolleranza zero verso chi si riunisce e manifesta». In vista anche delle prossime elezioni presidenziali e parlamentari, previste per il 2023.

La questione curda

Ma giornalisti e attivisti non solo gli unici a dover fare i conti con l’atteggiamento sempre più repressivo del governo in carica. Ad essere finito del mirino della magistratura è anche il partito filo-curdo, che rischia la chiusura e la messa al bando dalla vita politica dei suoi cinquecento rappresentanti.

Per i membri dell’Hdp gli attacchi da parte del governo non sono certo una novità, ma la pressione nei loro confronti è aumentata dopo il successo ottenuto nelle elezioni del 2019, quando 65 municipalità sono passate sotto la bandiera del Partito democratico dei popoli. Un successo che il governo ha subito provveduto a cancellare rimuovendo ben 45 sindaci e aprendo diverse causa legali contro i membri dell’Hdp.

«Minacciano di arrestarci e di metterci sotto processo, mentre cancellano continuamente l’immunità dei nostri parlamentari», spiega İlknur Birol, co-presidente del distretto di Istanbul. «Anche le nostre sedi sono sotto attacco e persino i nostri dipendenti rischiano la vita, come dimostra l’omicidio di Deniz Poyraz a Smirne».

Il tutto nell’indifferenza della polizia, che invece non manca di filmare giorno e notte chiunque entra ed esca dalla sede dell’Hdp di Istanbul, in una evidente manifestazione del controllo a cui il partito filo-curdo è costantemente sottoposto.

«La coalizione di governo non vuole perdere il potere, per questo è disposta a tutto pur di vincere le prossime elezioni, anche a chiudere il nostro partito», spiega ancora Birol. L’Hdp ha buone possibilità di aumentare il numero dei suoi parlamentati nel 2023, ritagliandosi un ruolo di maggiore rilievo e riuscendo così a indirizzare le politiche del prossimo esecutivo.

Riaprendo anche il dibattito sulla questione curda, argomento messo da parte dalla coalizione di governo ma che nemmeno i partiti di opposizione hanno intenzione di affrontare.

Più in generale, l’obiettivo dell’Hdp è cambiare il sistema politico imposto negli anni da Erdogan e imprimere una svolta realmente democratica alla Turchia, ma intanto il partito filo curdo deve fare i conti con la realtà.

«Erdogan ha saputo approfittare del conflitto in Ucraina per opprimere maggiormente la società e sta anche continuando ad attaccare i curdi in Iraq e Rojava nel silenzio della comunità internazionale. Vuole continuare su questa strada fatta di guerra e di violenza per vincere le elezioni, ma nemmeno lo scioglimento del partito basterà a fermarci», assicura Birol, la bandiera dell’Hdp ben visibile alle spalle dalla poltrona su cui siede.

Il movimento femminista

A rischiare la chiusura per via giudiziaria è anche il più importante movimento femminista della Turchia, noto con il nome inglese di We Will Stop Femicide Platform. L’accusa mossa dalla procura di Istanbul, che il primo giugno ha rimandato la sua decisione sul futuro dell’associazione a ottobre, è di oltraggio alla moralità e di attacco alla famiglia, intesa in senso strettamente tradizionale.

Un’interpretazione, quella offerta dalla procura, che rispecchia la visione del governo, i cui rappresentati hanno più volte ribadito come il ruolo della donna sia unicamente quello di moglie e madre.

«Se la Piattaforma chiude non è un problema solo per noi che ne facciamo parte, ma anche per le altre ong e per tutte le donne del paese», afferma Melek Önder, portavoce del movimento.

«La minaccia alla nostra organizzazione è un messaggio a tutti coloro che si oppongono al governo e dimostra ancora una volta che le donne sono lasciate da sole ad affrontare le violenze di genere». Nei primi quattro mesi del 2022 ci sono stati già 97 femminicidi, dopo i 280 del 2021 a cui si accompagnano altre 217 morti sospette.

La piattaforma è nata nel 2010 proprio in segno di protesta contro l’omicidio di una ragazza di 17 anni e da quel momento monitora i casi di violenza contro le donne, offrendo assistenza e pubblicando mensilmente i dati sui femminicidi.

Informazioni che le autorità hanno iniziato a raccogliere solo tre anni fa, colmando un vuoto che fornisce più di un indizio sul disinteresse del governo verso la violenza di genere. D’altronde solo un anno fa Erdogan ha ritirato il paese dalla Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica.

«Da quel momento abbiamo registrato un incremento dei casi di abusi ed è diventato più difficile far valere i nostri diritti, ma continuiamo con la nostra lotta. La violenza contro le donne è una questione che interessa tutta la collettività», afferma Önder.

Secondo la portavoce della piattaforma, il divario tra il governo e la società sul femminicidio così come su altre questioni è sempre più ampio. Mentre quest’ultima si sta evolvendo, i partiti di coalizione cercano di fermare il cambiamento in un’ottica di preservazione del potere che passa anche per il corpo delle donne.

«Da anni facciamo pressioni sulle autorità e sempre più persone sono dalla nostra parte. Per questo non siamo gradite al governo». Il lavoro della piattaforma mette in luce tutte le carenze della politica, che continua ad offrire scarsa protezione alle donne.

«Hanno il potere e le risorse per intervenire, ma nel momento in cui decidono di non farlo compiono una scelta politica precisa. È un modo per dire che la nostra vita vale meno di quella degli uomini», precisa Önder.  

Con l’avvicinarsi delle elezioni, la morsa del governo sulla società civile si fa sempre più stretta, ma la lotta contro la deriva autoritaria di Erdogan prosegue, seppur tra mille difficoltà. «La storia ci insegna che quando la democrazia e i diritti sono sotto attacco ci sarà sempre chi lotterà con successo per difendere l’uguaglianza e la libertà», conclude la portavoce del movimento. Una frase che pronunciata da una panchina di Gezi park in un pomeriggio di maggio suona quasi come un monito per il futuro.

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