Masih Alinejad è cresciuta nel nord dell’Iran in una casa di fango, ogni anno il padre la riparava con lo sterco di mucca dopo le piogge invernali. Oggi è forse la dissidente più temuta del regime iraniano, ricevuta da politici come il segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, e dal suo predecessore Mike Pompeo.

Coi suoi svariati milioni di follower sui social network (6 soltanto su Instagram) ha annientato la distanza imposta dall’esilio politico, divenendo famosa in patria a partire dalla grande campagna “my stealthy freedom” del 2014 e dai “mercoledì bianchi” contro il velo.

Al punto che i servizi di Teheran avrebbero architettato un piano per rapirla in territorio americano, secondo quanto rivelato dalle autorità americane la scorsa estate, pur di mettere a tacere quel fiume in piena che ogni giorno incita gli iraniani a rivendicare i propri diritti e a ribellarsi al regime, apparendo in video sempre con un fiore esposto nella folta chioma di capelli ricciuti.

La sua energia vulcanica è raccontata nel nuovo documentario Be My Voice, che domenica si è aggiudicato il premio del pubblico al festival Voci dell’Inchiesta di Cinema Zero.

In questi giorni cade il secondo anniversario delle proteste anti regime del Novembre 2019, e a Londra si è celebrato un processo simbolico che coinvolge i familiari delle vittime della repressione. Ha potuto partecipare malgrado lo stato di allerta per la sua sicurezza?

Sì, sono stata a Londra. Negli Stati Uniti, dove vivo, ricevo la protezione costante degli agenti dell’Fbi, che mi hanno consigliato di non viaggiare in Europa, perché lì è più facile che il regime tenti un assassinio politico. Ma io mi rifiuto di lasciarmi immobilizzare dalla paura. Al mio arrivo ho trovato tre poliziotti della Scotland Yard, responsabili della mia sicurezza. Quando sono venuti a prendermi all’aeroporto la prima reazione istintiva è stata chiedermi se avessi fatto qualcosa di male. Forse è un retaggio degli anni passati da dissidente in Iran (vive all’estero dal 2009, ndr.), devo ancora farci l’abitudine.

Due anni fa, dopo le proteste scatenate dall’annuncio dell’allora presidente Hassan Rouhani di un taglio ai sussidi alla benzina, il suo lavoro ha dato un volto alle vittime della repressione, diffondendo le testimonianze dei genitori dei giovani rimasti uccisi. Non ci sono numeri certi su quanti siano stati, ma sicuramente diverse centinaia.

Erano molti di più, in quei tre giorni di proteste sono morte almeno 1.500 persone. Durante le manifestazioni la gente in Iran mi inviava contributi dalle strade, ma dopo poco internet è stato soppresso dal regime. Eppure la guida suprema Ali Khamenei, il ministro degli Esteri e i quadri del governo hanno continuato a usare i social, che sarebbero proibiti anche in tempi normali. Mi sono rivolta a Mark Zuckerberg di Facebook e a Jack Dorsey di Twitter per protestare, dicendo che incitavano alla violenza.

Cosa le hanno detto?

Che i loro messaggi sui social erano solo una forma di “saber rattling”, che in inglese vuol dire qualcosa tipo “minaccia dell’uso della forza”, ma in quanto tali erano tutelati comunque dalle regole sulla libertà d’espressione. Garry Kasparov ha sostenuto le mie proteste, ma inutilmente.

Cos’è successo poi?

Appena è tornata internet sono stata bombardata di messaggi con video delle madri delle vittime. Tenevano in mano una foto del figlio o della figlia scomparsi e mi mostravano il luogo in cui erano stati uccisi (Alinejad singhiozza al telefono, ndr). Io rilanciavo le testimonianze sui miei canali social e sul mio programma su Voice of America in persiano. La gente in Iran usa Twitter e Facebook con Vpn, e nella maggior parte del paese c’è modo di accedere a Instagram, compresa la mia pagina anche se è filtrata. Dunque i miei canali fecero da cassa di risonanza laddove non si sapeva nulla dai media ufficiali.

Il suo lavoro, iniziato con l’attivismo contro il velo, si basa da anni sulla raccolta di contributi dal territorio e sulla distribuzione sui social, oltre che sui media tradizionali.

Esatto, ogni giorno mi sveglio con migliaia di messaggi, soprattutto su Instagram, dove ho il seguito più significativo, ma anche su WhatsApp e Telegram. Sono iraniani che vogliono condividere le loro storie di oppressione, ma che non possono farlo tramite i canali mediatici ufficiali. In qualche modo si può dire che i social hanno scardinato l’apparato di censura iraniano. Sul materiale faccio un lavoro di fact-checking che può durare perfino un mese, parlo con le persone, chiedo di mostrarmi delle prove per verificare i loro racconti. Quando poi condivido i contenuti creo molto dibattito, spesso i video ricevono decine di migliaia di commenti, e aiuto le persone che hanno avuto esperienze di repressione simili a unirsi fra loro.

Oltre ad essere nel mirino del regime – le autorità consideravano il suo spirito critico impertinente già quando faceva la cronista parlamentare in Iran, ma ora la vedono come una vera e propria minaccia – anche fra i dissidenti ha dei detrattori.  

Sì, dicono che diffondendo i contributi di persone che vivono in Iran metto a repentaglio la loro sicurezza. In effetti è successo. Delle ragazze che mi hanno inviato video che le mostravano in strada senza velo sono state perseguite dalle autorità, così come delle madri che lamentavano incarcerazioni ingiuste di figli da parte del regime. Parliamo di pene attorno ai vent’anni. Ma dico sempre che queste persone agiscono di propria iniziativa, in piena consapevolezza. Conoscono i rischi e vogliono comunque lanciare un messaggio per il mondo libero.

Ha mai pensato di smettere per evitare che i suoi post le mettano in pericolo?

È come se durante l’apartheid avessimo detto che sostenere la protesta metteva in pericolo i manifestanti. Il velo è ben più che uno straccio sulla testa, è simbolo di un articolato sistema di discriminazione. Quando il regime ha fatto una legge secondo cui mandarmi un video sarebbe perseguibile con fino a dieci anni di carcere, i messaggi sono soltanto aumentati. La gente vuole dare voce a chi non ce l’ha, da qui lo slogan “Be my voice”.

Secondo Freedom House oltre 200 giornalisti iraniani hanno subito minacce dagli apparati del regime: ormai la repressione del dissenso ha respiro transnazionale.

Certo, coi social e i metodi di comunicazione a distanza i critici possono essere influenti anche dall’esilio, e dunque rimangono dei bersagli. Il mio amico giornalista Ruhollah Zam è stato attirato in Iraq, rapito e giustiziato in Iran nel Dicembre 2020. Un deputato ha detto che la prossima dovrei essere io, un appello ribadito da due giornalisti di regime dopo l’eliminazione di Qasem Soleimani nel gennaio 2020 da parte degli Stati Uniti. Nel frattempo ci sono state rappresaglie contro la mia famiglia: hanno arrestato mio fratello e nel 2018 hanno costretto mia sorella a prendere le distanze da me in televisione. Odiano che vada a raccontare in giro, sui media occidentali, che la forma di fondamentalismo che predica il governo non è la vera cultura iraniana.

Nel documentario è stata tagliata una parte in cui visitava l’ottantatreenne moglie dello Shah Farah Pahlavi a Washington, insieme alla regista Nahid Persson. Anche quel regime però non è stato certo una democrazia.

Era un regime che sicuramente richiedeva delle riforme, ma quello di oggi invece va proprio abbattuto. I nostri governanti sono come l’Isis e i Talebani. Con la rivoluzione del 1979 la gente voleva acquisire più libertà politiche, ma ha finito per perdere quelle sociali. In Iran 42 anni fa si poteva andare allo stadio, si poteva cantare. Quando guardiamo le foto di quegli anni ci sembra di guardare al futuro. Ecco, in Iran quando guardi al passato ti sembra di guardare al futuro.

Nel libro Il vento fra i capelli (Nessun Dogma, 2020) racconta l’infanzia passata in una casa conservatrice, in cui il padre si è unito subito ai Basij e alle Guardie rivoluzionarie e addirittura costringeva le figlie a tenere il velo quando dormivano. Forse già allora maturava il suo spirito ribelle.

Si, si può dire che la mia rivolta è iniziata dalla cucina di casa, così come ogni donna iraniana deve fare nel suo piccolo la propria rivoluzione. Non sta all’occidente salvarci, ma è doveroso che i vostri rappresentanti, quando incontrano quelli del regime, ci diano un aiuto, e portino con sé anche le nostre voci.

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