Poco dopo la mezzanotte del 1 luglio 1997, nel corso di una cerimonia solenne accompagnata dagli ultimi accordi di God save the Queen, la bandiera del Regno Unito fu ammainata, dopo 156 anni di dominio coloniale, per lasciare il posto al vessillo rosso della Repubblica popolare cinese. Fu il governatore britannico Chris Patten, in quell’occasione, a stringere la mano al Presidente cinese Jiang Zemin: «Benvenuto ad Hong Kong», gli disse.

Il cosiddetto handover si era reso possibile dopo che il leader cinese Deng Xiaoping – artefice della modernizzazione della Repubblica popolare – aveva proposto, già nel 1979, nell’ambito delle trattative con Londra, la formula «un paese, due sistemi»: sebbene a tutti gli effetti parte della Cina popolare, Hong Kong godeva di un ordinamento istituzionale e di un sistema economico differente, pur cedendo a Pechino sovranità e decisioni in politica estera e difesa militare.

Ben presto le profonde differenze tra Pechino ed Hong Kong sono emerse, spesso accompagnate da episodi di violenza. La causa sta nell’erosione delle libertà politiche, giuridiche ed economiche che la Cina si era impegnata a garantire e che sono sancite nella Basic Law, la costituzione de facto della regione amministrativa speciale, per una durata di cinquant’anni (fino al 2047).

Il Partito comunista cinese, pur non avendo il diritto di limitare la libertà di stampa, espressione, assemblea, e religione dei cittadini di Hong Kong, ha esercitato una considerevole influenza attraverso la progressiva interferenza nelle istituzioni della città-stato da parte di “lealisti” che hanno assunto centralità nella sfera politica di Hong Kong.

La Chief Executive di Hong Kong, Carrie Lam, con Luo Huining, capo del'l’ufficio di collegamento della Cina con Hong Kong.

La rivoluzione degli ombrelli
 

La Rivoluzione degli ombrelli del 2014, che si opponeva a ciò che veniva visto come il tentativo di Pechino di pilotare le elezioni per la nomina del chief executive (il capo dell’esecutivo) di Hong Kong, riavvicinò molti giovani alla vita politica. Il suo fallimento e la conseguente frammentazione del movimento pro democratico convinse però molti che la natura ordinata delle proteste e il loro carattere non violento non avessero riscosso alcun successo nell’opposizione all’autoritarismo cinese.

Negli ultimi anni, il rapporto tra Hong Kong e la Cina popolare si è fatto più problematico: nel marzo del 2019 un nuovo disegno di legge sull’estradizione di soggetti responsabili o sospettati di crimini verso paesi con cui Hong Kong non ha accordi di estradizione, come la Cina popolare o Taiwan, ha dato vita a un nuovo movimento di protesta.

Nonostante le rassicurazioni del chief executive, Carrie Lam, secondo cui ciò avrebbe dovuto proteggere gli abitanti di Hong Kong dai criminali provenienti dall’estero, il timore che tale legislazione sarebbe stata rivolta contro gli attivisti del movimento pro democratico era palpabile.

I tumulti sono andati avanti per mesi, fino a quando – a settembre scorso – la proposta di legge non è stata (definitivamente?) accantonata. Ciò nonostante, le richieste di libertà e democrazia da parte dei movimenti non sono state abbandonate e il confronto con le autorità si è inasprito.

La criminalizzazione di ogni tipo di dissenso
 

Il 30 giugno scorso, il Comitato permanente dell’assemblea nazionale del popolo ha approvato una legge, tenuta segreta fino alla promulgazione, che modificava gli equilibri tra la Cina e Hong Kong. Questa, infatti, criminalizza qualunque tipo di dissenso, con una interpretazione ampia e nebulosa di crimini come terrorismo, sovversione, secessione, e collusione con qualunque potenza straniera atta a minare gli interessi nazionali.

Una delle ragioni della subitanea introduzione della legge è la prolungata ondata di violenza a Hong Kong a cui la Cina doveva porre un freno. La pandemia ha poi messo in scacco il movimento pro democratico di Hong Kong, dando l’opportunità al governo di mettere fuori legge qualunque forma di aggregazione, procedendo all’arresto di diversi attivisti.

A livello internazionale, la stretta cinese su Hong Kong è stata condannata con fermezza: il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha annunciato limitazioni al rilascio del visto americano agli esponenti del Partito comunista cinese responsabili dell’erosione dell’autonomia di Hong Kong e della violazione dei diritti umani.

La decisione più importante presa dall’amministrazione Trump concerne la sospensione delle regolamentazioni che hanno sinora consentito – in ambito commerciale – un trattamento di favore ad Hong Kong rispetto alla Cina: in base a questa “consuetudine”, per esempio, Hong Kong era stata lasciata fuori dalle recenti dispute tra Stati Uniti e Cina sulle tariffe commerciali. Se così non dovesse più essere, ciò rischia di dare vita ad una serie di pericolose ricadute per il commercio a livello mondiale, essendo Hong Kong uno dei più importanti hub commerciali.

Per Pechino, invece, il ridimensionamento commerciale di Hong Kong potrebbe ormai essere tollerato, visto che megalopoli come Shenzhen e Shanghai sono in grado di offrire la medesima attrattività agli investitori stranieri.

Il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione (non vincolante) in cui si raccomanda agli stati membri di introdurre delle sanzioni a carico di quei funzionari cinesi che “adottano politiche che violano i diritti umani” e ha suggerito che l’Unione europea faccia ricorso alla Corte internazionale di giustizia contro la decisione cinese. È ovvio che ciò potrebbe riverberarsi negativamente sugli ottimi rapporti commerciali tra Pechino e l’Unione europea.

Manifestanti in piazza contro la nuova legge sulla sicurezza. (AP Photo/Vincent Yu, file)

Anche grandi multinazionali – tra cui Microsoft e probabilmente Apple – si sono dette recalcitranti ad accettare le imposizioni cinesi, sostenendo che il controllo che la Cina potrà adesso esercitare anche su Hong Kong, attraverso l’imposizione del proprio potente firewall, non consentirà loro di operare liberamente come in precedenza. Queste aziende, quindi, potrebbero decidere di trasferire le sedi a Taiwan o in qualche altra nazione asiatica.

Pechino ha risposto intimando alla comunità internazionale – e in particolare agli Stati Uniti – di non immischiarsi in questioni che pertengono esclusivamente al controllo cinese, minacciando contromisure.

L’assertività cinese, che ha cominciato ad affiorare con l’avvento di Xi Jinping, è stata riaffermata dalle recenti affermazioni di Zhang Xiaoming – direttore esecutivo dell’ufficio per gli affari cinesi con Hong Kong e Macao – il quale ha dichiarato che “l’epoca in cui i cinesi si preoccupavano di ciò che gli altri pensavano è ormai passata e non ritornerà più”.

Il progressivo accerchiamento territoriale

Da qualunque parte la si guardi, l’introduzione della legge per la sicurezza nazionale rischia di determinare la fine del principio “un paese, due sistemi” che, finora, ha garantito agli abitanti di Hong Kong una serie di libertà la cui applicazione resta inconcepibile nella Cina continentale. Uno degli esponenti più in vista del movimento di protesta del 2014, Joshua Wong, ha detto che rappresenterebbe “la fine di Hong Kong come il mondo l’ha finora conosciuta”.

È lecito attendersi una stretta progressiva di Pechino ai danni di Hong Kong: la Cina è riluttante a concedere che la città-stato si sviluppi in una piena democrazia contraddistinta da elezioni eque, libere e ricorrenti. Nella Basic Law l’obiettivo finale indicato è quello di garantire che i leader siano eletti attraverso un voto popolare, ma l’assenza di una specifica temporale su quando ciò potrà verificarsi vanifica qualunque possibilità di riforma.

Nessuno può sapere quali siano i piani che la Cina ha in serbo per Hong Kong dopo il 2047. Per adesso, il concetto di integrità territoriale è talmente rilevante che Pechino guarda con preoccupazione a qualunque minaccia.

La voce che si alza dal gruppo pro democratico di Hong Kong per Pechino deve essere posta sotto stretto controllo sia a causa della rilevanza internazionale della città sia, soprattutto, perché ciò potrebbe costituire un precedente pericoloso che potrebbe condurre alla richiesta di riforme politiche in una serie di altre zone scarsamente “controllabili” dal centro, come il Tibet, lo Xinjiang, la Mongolia interna.

Questa strategia spiega il progressivo accerchiamento territoriale di cui Hong Kong è stata vittima negli ultimi anni, attraverso la creazione di una serie di infrastrutture – come il ponte Hong Kong-Zhuhai – per collegarla direttamente al continente. Il futuro di Hong Kong, insomma, sembra non promettere nulla di positivo: ciò nonostante, le valutazioni ottimistiche di Pechino potrebbero rivelarsi non prive di insidie.

Non resta che sperare che ciò non comporti una seconda Tiananmen.

© Riproduzione riservata