Paradossalmente, l’immagine più simbolica dell’Iraq è quella scattata qualche mese fa dalla Stazione spaziale internazionale: un’indefinita macchia nera aperta verso il Golfo Persico, incorniciata dalle luci delle rotte commerciali e petrolifere. In questo buio papa Francesco si appresta ad accendere una luce dal 5 all’8 marzo. Attraversando il nord e il sud dell’Iraq per un totale di 7mila chilometri, Francesco sarà il primo papa nella storia a visitare Baghdad, Najaf, Ur, Ebil, Mosul e Qaraqosh: luoghi simbolo delle tre religioni abramitiche, ma che portano con sé anche i segni contraddittori dello scontro di civiltà.

Un viaggio rischioso

Il viaggio è rischioso per vari motivi. Da una parte c’è l’emergenza politica e sociale di un paese con le cicatrici inflitte dallo Stato islamico (Isis), dall’altra quella sanitaria, con i contagi in aumento e l’ombra flebile delle prime vaccinazioni. L’incertezza traspare anche nella logistica: la clausola firmata dai giornalisti che accompagneranno il papa recita che tutto potrebbe saltare fino a 24 ore prima del decollo. Per questo, la Santa sede e l’Iraq hanno messo in moto una macchina della sicurezza senza precedenti che da alcune settimane lavora fianco a fianco con le autorità irachene.

Il pontefice atterrerà a pochi giorni di distanza dal raid aereo Usa contro le milizie irachene, l’ultima risposta ai tre attacchi che dal 15 al 20 febbraio hanno colpito le basi commerciali e militari di Erbil e Balad, inclusa l’ambasciata statunitense a Baghdad.

Il dialogo con gli sciiti

Malgrado l’apprensione, c’è grande speranza, come ha sottolineato il primo ministro iracheno, Mustafa al Kadhimi. «I preparativi stanno andando avanti, sui media non si parla d’altro», dice via Skype Mustafa Alaukidy, ingegnere elettronico che lavora da anni in Iraq: «Abbiamo tante aspettative per le parole di papa Francesco e questo è il clima che stiamo respirando un po’ tutti».

È atteso l’incontro con il grande ayatollah Ali Sistani, leader internazionale degli sciiti. Come ha sottolineato su Formiche l’intellettuale libanese Antoine Courban, è significativo che l’incontro tra i due non avvenga a Baghdad ma a Najaf, sede del più importante santuario sciita. È un primo passo importante nel dialogo con gli sciiti, che tuttavia non è tanto maturo quanto quello con i sunniti. E se l’ufficio del grande ayatollah ha negato la sottoscrizione congiunta di un documento sul modello di quello firmato due anni fa con il grande imam di al Azhar, Ahmad al Tayyeb.

Eppure, l’incontro tra i due capi religiosi getterà importanti basi come fece papa Giovanni Paolo II con i giovani musulmani a Casablanca nel 1995: «Dobbiamo rispettarci e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio» disse allora Wojtyla in quello che fu il punto d’inizio dei rapporti tra cattolici e sunniti. Con lo stesso spirito, papa Francesco comprende che nel dialogo, prima di elaborazioni teologiche, occorre confrontarsi su obiettivi comuni, come la giustizia sociale.

Da Abramo al mondo

A due passi da Nassiriya e dall’aeroporto militare intitolato all’imam Ali, il papa terrà un incontro interreligioso nell’antica città di Ur, dove visse Abramo. Nella narrazione di Bergoglio, Ur non è più soltanto il simbolo del passato, ma il cantiere del futuro del medio oriente: un netto ribaltamento rispetto all’iconoclastia dell’Isis, che accompagnava le ecatombi alle distruzioni dei siti archeologici, come ad Hatra e Mosul.

Solo papa Giovanni Paolo II aveva fatto lo stesso nella Valle dei Templi di Agrigento, dove i resti della storia, prodromi dello sviluppo della civiltà, incarnavano l’antitesi di un futuro abortito dai mafiosi, che il papa condannò duramente. Per questo, in Iraq i giovani saranno i destinatari delle parole del pontefice, gli stessi che prima della pandemia chiedevano una nuova Costituzione e la fine della corruzione.

Nell’autunno del 2019, erano stati sostenuti anche dal cardinale Louis Raphael Sako, che aveva parlato di «teologia della liberazione di Teheran» sul Corriere della Sera: «Gesù Cristo ha pagato con la croce il prezzo per la sua nobile missione. I dimostranti stanno pagando un prezzo altissimo con un numero di morti che supera i 430 martiri e i 15mila feriti».

Oggi i giovani iracheni soffrono la mancanza di prospettive sociali, economiche e politiche: secondo le stime del Fondo monetario internazionale, solo quest’anno l’Iraq ridurrà la sua economia dell’11 per cento, con una povertà che rasenterà il 40 per cento. Proprio a Ur, la città di Abramo in cui la vecchiaia del capostipite si è intrecciata alla nascita d’Israele, in tanti si aspettano che il papa infonderà speranza.

Tra le ombre degli Usa

Il viaggio del papa non risparmierà le ombre della storia americana nel paese, le stesse con cui sta facendo i conti il neo presidente Joe Biden, che ha di recente rimpianto il suo appoggio nella guerra al terrore di George W. Bush all’indomani dell’11 settembre 2001. Secondo le stime ufficiali, in Iraq sono morti 4.600 soldati americani, escludendo i circa 10mila suicidi fra i veterani. Un anno e mezzo dopo aver fatto memoria della distruzione nucleare a Hiroshima e Nagasaki, il papa riprende a condannare la guerra.

In questi giorni, l’Iraq vede riaffacciarsi l’incubo del fondamentalismo islamico, che si riteneva divelto nel 2017. «C’è una rinascita dell’Isis in Siria e Iraq» ha dichiarato la ministra francese Florence Parly, giustificando l’addestramento delle forze armate. Il papa sorvolerà l’area tra Erbil e Baghdad, laddove il viceministro Peshmerga, Sarabs Lazgin, ha individuato la risacca dell’Isis. L’incontro con i cristiani del Kurdistan iracheno, che hanno abbandonato le loro case negli anni bui del califfato, sarà significativo.

Secondo Reuters, dei 60mila cristiani del distretto di al Hamdaniya, appena la metà è ritornata, e chi lo ha fatto ha presentato esposti contro le milizie sciite locali, accusate di essersi impossessate dei loro beni. In questo clima, le cellule fondamentaliste alimentano le contese con piccoli attentati, spesso rivendicati dall’agenzia di propaganda Amaq: nel 2020 se ne sono registrati 1.422, l’ultimo dei quali il 21 gennaio a Baghdad, ha mietuto 30 vittime. Per contrastare il califfato, nel 2014 il Grande Ayatollah Ali Sistani aveva legittimato l’uso delle armi da parte dei civili iracheni, poi inglobati nella Mobilitazione popolare governativa anti-Isis.

Giustizia sanitaria e sociale

Con 40 milioni di abitanti, l’Iraq attende l’arrivo dei primi 50mila vaccini contro il coronavirus: secondo gli ultimi dati dell’Oms, il paese ha registrato oltre 690mila contagi e 13mila decessi. Di recente anche l’ambasciatore vaticano a Baghdad, il nunzio apostolico Mitja Leskovar, è risultato positivo al Covid-19 e il pontefice stesso si augura l’assenza di assembramenti nei luoghi che visiterà.

Molti si chiedono se il viaggio non sia imprudente, ma il papa non sottovaluta le implicazioni sanitarie e lo dimostra la nomina del suo nuovo medico personale alla vigilia del viaggio. Per Francesco, piuttosto, la giustizia sanitaria è il paradigma della giustizia sociale. Il rapporto stilato dall’Oxfam alla vigilia del World economic forum 2021 mostra le disuguaglianze economiche e sociali della pandemia, tanto che il virologo John Nkengasong, a capo del Centro africano per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha parlato di «catastrofe morale».

C’è da aspettarsi che papa Francesco dalle periferie del mondo punterà il dito contro i limiti della politica verso una pandemia che, al contrario, non conosce confini. Come aveva pronunciato un anno fa: «Su questa barca ci siamo tutti. E ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo. Ma solo insieme».

© Riproduzione riservata