L’elezione di Joe Biden promette un ritorno al multilateralismo nella governance mondiale. Ma sarà diverso dall’utopia un po’ vaga e ipocrita che vigeva prima di Donald Trump. Era un multilateralismo centrato sugli Stati Uniti nonostante un primato economico molto ridimensionato. Era complementare alla globalizzazione, i cui eccessi sono ora riconosciuti, comprese l’esasperata complessità delle catene del valore e una finanza apolide che ha reso più ardua la tassazione del capitale. Era una globalizzazione sempre più anarchica e disordinata con istituzioni internazionali deboli e un G20 impotente. Le statistiche mostrano come protezionismi commerciali scoordinati siano cresciuti ben prima dell’arrivo di Trump e delle sue minacciose tariffe: ogni anno, mentre i vertici dei capi di stato celebravano il libero scambio, il Wto si inceppava e i governi introducevano sempre più distorsioni per ostacolare l’import e sussidiare l’export.

Alla fine di dicembre non sono mancate novità, oltre a Biden. La Commissione europea ha comunicato una nuova strategia transatlantica; fra Ue e Cina è stato firmato un accordo sugli investimenti diretti, poco dopo che la Cina concludesse un accordo commerciale con altri 14 paesi dell’area asiatico-pacifica che esclude per ora gli Usa; da capodanno è in vigore un accordo di libero scambio fra più di 50 nazioni africane. Se son rose fioriranno. Ma il quadro è delicato. L’accordo europeo con la Cina non è ben visto dagli Usa; non è chiara la reazione dell’intensa politica africana della Cina nei confronti dell’accordo dei 50; l’europeismo di Biden va messo alla prova; la capacità dell’Ue di giocare bene su tutti i fronti richiede che il profilo della sua unità rimanga alto, tacitando i sovranismi. L’Europa deve aver successo nella gestione della pandemia, nell’implementazione del suo nuovo bilancio poliennale affiancato dal grande stanziamento Next generation Eu, nelle nuove consistenti emissioni internazionali di eurobond per finanziarlo e nell’evoluzione del post-Brexit, soprattutto dei suoi aspetti finanziari dai quali dipende il ruolo dell’euromercato.

È comunque prevedibile che globalizzazione e multilateralismo evolveranno verso una più spinta regionalizzazione dell’economia mondiale, con tre poli: gli Usa, l’Ue e la Cina. Ciascun polo avrà una sua integrazione più intensa di quella che li collegherà. Per tenere in qualche ordine il governo del mondo la regionalizzazione andrà riconosciuta e i diversi modelli politico-culturali rispettati. L’articolazione triangolare della governance dovrà essere paritaria e inclusiva, cioè pronta ad accogliere lo sviluppo di altri poli regionali la cui formazione andrà preferita alla competizione dei tre per dominare il mondo.

Le incognite

Al momento ogni polo ha le sue incognite. Molto incognito è il polo più giovane e in crescita, centrato sulla Cina, per l’apparente incoerenza fra l’evoluzione dell’economia e quella della politica cinesi. Ma molti protagonisti delle economie occidentali si mostrano spesso ansiosamente attivi nell’intensificare i rapporti con il polo orientale. Lo si vede soprattutto in campo finanziario e monetario, perché finanza e moneta hanno la mobilità e la globalità più incontenibili. Nell’ultima parte dell’anno scorso la combinazione fra la migliore evoluzione della pandemia in oriente e la congiuntura politica controversa e incerta degli Usa hanno accentuato l’entusiasmo per il sol levante. Si è sottolineato il rafforzamento del renminbi che da maggio si è rivalutato del 10 per cento contro il dollaro, anche se si trattava di un indebolimento del dollaro: infatti la moneta cinese è rimasta sostanzialmente stabile rispetto all’euro ed è scesa poco più del 2 per cento rispetto alla media delle monete dei paesi con cui la Cina commercia. Il tifo per la finanza cinese è giunto a considerare la fine del dominio del dollaro.

Dominio ancora fortissimo e sintomo della residua dominanza globale Usa, forse ancor più dell’altro connotato di dominio, la forza militare. Nella composizione delle riserve ufficiali delle banche centrali la valuta cinese è in quinta posizione con una quota del 2 per cento (un terzo di quella dello yen e metà della sterlina), raddoppiata dal 2016 ma ancor minima rispetto al 60 per cento del dollaro e al 20 per cento dell’euro. Nella compravendita mondiale di valute la quota del dollaro è 22 volte quella del renminbi. Sta crescendo la porzione del valore dell’import-export della Cina pagata in renminbi, ma è ancora poco più del 15 per cento. Azioni e obbligazioni cinesi sono entrate nei principali indici globali e nel solo 2019 il valore di titoli in renminbi detenuti da stranieri è cresciuto di quasi il 50 per cento. Ma il peso dei rapporti finanziari con l’estero, rapportato a quelli commerciali, è ancora basso in Cina: la somma di entrate e uscite per investimenti diretti e di portafoglio della Cina è circa il 10 per cento di quella per partite commerciali e correnti, meno della metà della analoga proporzione del Giappone.

Il sistema finanziario cinese e i suoi rapporti con l’estero sono immaturi e lungi dal costituire l’indispensabile retroterra di una valuta davvero globale. Sono distorti da fattori anti-mercato, disposizioni amministrative sui tassi di interesse e i flussi di credito, vincoli e interventi non trasparenti delle autorità. Basti pensare al paradosso del convivere di limiti alle uscite di capitali, indispensabili per evitare una ancora repressa, impetuosa diversificazione internazionale della ricchezza finanziaria cinese, che produrrebbe grandi pressioni al ribasso del cambio, col sospetto di frequenti interventi della banca centrale per evitare che gli afflussi di capitali esteri rivalutino troppo il cambio.

Il polo regionale cinese

Anche se non sono disponibili dati per dimostrarlo chiaramente, l’impressione è che l’internazionalizzazione del renminmbi stia procedendo veloce ma in una dimensione strutturalmente regionale. Il polo regionale cinese della globalizzazione comincia ad avere anche una sua moneta e un suo mercato dei capitali. Lo prova anche la fitta rete di accordi swap della quale Pechino ha curato la crescita con le banche centrali della regione.

Una circolazione regionale di moneta, credito e capitali è quel che serve anche per lo sviluppo delle attività economiche e commerciali, che si sta regionalizzando rapidamente. Questo è possibile mostrarlo con i numeri. Lo abbiamo fatto con Lucia Tajoli l’anno scorso usando la tecnica dei grafi. Più approssimativamente: la quota della somma di esportazioni e importazioni della Cina con i paesi prossimi della regione, escludendo il Giappone ma includendo Corea del sud, Australia e Nuova Zelanda (oltre a Mongolia, Bhutan, Myanmar, Laos, Malesia, Singapore, Thailandia, Indonesia, Cambogia, Vietnam, Filippine , Bangladesh) sfiora ormai il 50 per cento, 7 punti più che nel 2013 e 10 punti più che nel 2007. Aggiungendo India, Pakistan, Nepal, Russia e Sri Lanka si raggiunge quasi il 60 per cento rispetto al 51 per cento di solo sei anni fa.

Nel marzo del 2009 l’allora governatore della Banca centrale cinese, l’ottimo Zhou Xiaochuan, scrisse un conciso ed elegante paper per augurare un futuro con più monete di riserva gestite in modo coordinato e collegate fra loro da una moneta mondiale. Il disegno di una globalizzazione regionalizzata era forse già nelle idee pechinesi. Anche sul piano della regolamentazione bancaria e finanziaria, in un mondo sempre più infragilito dai debiti, una coordinata articolazione regionale delle norme assicura più controllo e stabilità. Come in altri settori, meglio aver regole regionali che non-regole mondiali.

 

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