Stiamo per mandare circa 200 soldati delle forze speciali in Mali dove infuria la guerra contro il jihad. Non se ne è parlato molto ma l’operazione Takouba (spada in lingua tuareg) è ormai partita.

Posto a sud dell’Algeria, il Mali collega l’Africa Occidentale del golfo di Guinea con la zona del Sahel del Niger e della Libia. Oggi è terra di scontro tra varie forze: da una parte il governo del socialista Ibrahim Boubakar Keita (detto IBK); contro di lui una forte opposizione islamista rigorista che vuole l’applicazione della sharia cioè della legge coranica; infine a nord i terroristi jihadisti che controllano parte del territorio.

L’islam è al centro del gioco politico.

A contrastare i terroristi dal 2013 i francesi (ex colonizzatori) hanno inviato 5000 uomini che finora hanno contenuto il fenomeno senza sconfiggerlo. Il terreno delle operazioni è enorme: circa un milione di chilometri quadrati, per lo più desertici.

Parigi è riuscita a evitare che i jihadisti penetrassero più a sud, scendendo verso la capitale Bamako (e verso la costa, molto più ricca). Ma ora c’è un nuovo nemico per la democrazia maliana: la pressione interna dell’opposizione rigorista islamica, anch’essa molto forte a causa della corruzione imperante e della fragilità delle istituzioni, che potrebbe far cadere il governo e far diventare il Mali il paese il primo Stato ad imporre la legge islamica in Africa Occidentale.

Per questo gli europei si stanno preoccupando di reagire e si aggiungono ai francesi. Prima tedeschi, poi cechi, estoni e svedesi, e ora anche italiani e spagnoli: in molti accettano l’invito di Parigi di costituire una forza speciale per contrastare il jihadismo e puntellare il governo di IBK.

Gli italiani per ora hanno preso un ruolo “medevaccioè di evacuazione medica dei feriti dal campo di battaglia. Ruolo delicato. Tutto ciò è opportuno ma frettoloso perché necessiterebbe di una buona preparazione politica.

Già da un paio d’anni la Francia insiste per allargare la sua presenza armata nell’area agli altri europei. Le missioni militari transalpine (Serval e Barkhane) sono state volute dal presidente Francois Hollande e gestite dal suo ministro della difesa Jean-Yves Le Drian.

L’attuale presidente Emamnuel Macron non ha mai amato troppo tale sovraesposizione bellica, avendo un’altra idea di politica africana per la Francia. Ma la storia trascina spesso laddove non si pensa e alla fine anche Macron ha dovuto accettare in eredità questa prova, in nome della guerra al terrorismo. A gestirla sempre Le Drian, questa volta dagli Affari Esteri.

Il rischio di una vittoria jihadista persiste. Macron ha chiesto ai suoi di trovare almeno il modo di europeizzare l’operazione, condividendo oneri ed onori. Ciò significa negoziare anche le posizioni di comando: una prima volta nell’area riservata della francofonia… ma tant’è.

Rimane tuttavia necessaria una riflessione politica di come si sta sul campo e di quali obiettivi geopolitici ottenere. Non basta una reazione militare al jihadismo: ci vuole una vera politica per tutta la regione che sappia crearsi degli alleati e sfruttare i possibili vantaggi geopolitici. Un lavoro da Farnesina e non solo da esercito.

Per esempio va analizzato un fatto politicamente molto pericoloso: la mutazione in senso islamico che sta avvenendo dentro l’opposizione civile a Bamako. Se anch’essa viene dirottata dagli islamisti rigoristi che chiedono la sharia, il risultato sarà simile ad una vittoria dei jihadisti sul terreno militare, anzi peggiore: nessuno potrebbe opporsi alla nascita di una “repubblica islamica” se votata dal popolo e ottenuta con un cambio di regime imposto pacificamente dalla piazza. Per questo le armi non bastano.

La realtà è che siamo stati –noi occidentali- troppo deboli con governi corrotti (e troppo presi dai soli interessi economici immediati) e ora questo approccio ci si ritorce contro. Se il Mali cade preda della sharia si crea un buco geopolitico al centro dell’Africa occidentale, grave almeno quanto l’instabilità libica.

Il tentativo di impossessarsi di uno “Stato” è ciò che al Qaeda e Isis, in maniera diversa e competitiva, perseguono da anni nell’universo sunnita (un po’ ciò che gli sciiti hanno con l’Iran). In Africa ci hanno già provato in passato in Sudan. Oltre alla fine dell’islam tradizionale africano, assisteremmo al crollo del Mali laico e democratico quello di Hampaté Bah, Modibo Keita o Alpha Oumar Konaré.

Ora l’Europa corre ai ripari ampliando le operazioni militari, con l’appoggio degli Stati Uniti che però preferiscono restare un po’ coperti. La vera carenza occidentale tuttavia non è a questo livello. Manca una lettura reale dei fenomeni socio-politici in atto nella regione.

I paesi del Sahel sono al 90% musulmani ma con una tradizione confraternale non legata ai movimenti riformisti da cui discende l’islam politico attuale. Si tratta di una realtà generalizzata nell’islam dell’Africa nera: una religione più tollerante, che accetta la coabitazione nella stessa famiglia tra cristiani, musulmani e animisti; dialogante e conciliante. Nulla a che vedere con l’islam arabo in piena mutazione e contesa interna.

(Proteste a Bamako per chiedere le dimissioni del presidente Ibrahim Boubacar Keita, foto LaPresse)

Da decenni jihadisti ed estremisti venuti dal Medio Oriente cercano di “convertire” i musulmani neri a un islam intollerante e rigorista. Per fare questo utilizzano i finanziamenti, la costruzione di moschee con imam wahabiti ma sanno anche inserirsi nelle crepe della società e strumentalizzare il malcontento verso i propri obiettivi.

La corruzione e i brogli elettorali avvantaggiano i predicatori salafiti (cioè estremisti) che si presentano come incorruttibili ed equi. Anche le attività sociali svolte dai gruppi radicali a favore dei più poveri aiutano tale processo. Ma ciò che favorisce di più la penetrazione estremista in Africa è il dirottare verso cause jihadiste il malcontento etnico e tribale.

In Mali (come in tutta la regione) numerose etnie minoritarie, a iniziare dai tuareg, vedono nei jihadisti la sola possibilità residua di accedere all’autonomia o addirittura all’indipendenza. Questo non interessa ai jihadisti che sono ben contenti di manipolare il sentimento di rivalsa di molte etnie a loro beneficio. In questa tattica rientra anche il matrimonio di alcuni di loro con donne del luogo per stringere alleanze di sangue e di discendenza con importanti lignaggi locali. Tutto ciò va studiato e osservato da vicino.

Senza un’analisi attenta di tali fenomeni, è difficile decifrare ciò che accade in tutta la regione, gli scontri fra popoli diversi come quelli sanguinosissimi tra peul-fulani e dogon o quelli tra caste all’interno della collettività tuareg, molto articolata. Non basta limitarsi a dire: guerre tribali… Per evitare di commettere errori è necessario capire e poi agire di conseguenza.

La simpatia per le truppe occidentali (in primis i francesi) non è al massimo in Mali: la gente è scontenta perché la crisi perdura e i risultati non ci sono. Su questo si innesta la propaganda estremista che cerca di convincere i maliani che l’interesse europeo è distruggere il Mali, non salvarlo. Ci vuole una politica che riconquisti la collaborazione con l’Europa. La sola reazione militare non è sufficiente.

L’Italia ha fatto passi avanti in questa direzione quando ha aperto l’ambasciata e aumentato gli investimenti, passando dal considerare il Mali (e tutta la regione) da un paese solo da aiutare ad uno Stato con cui cooperare.

L’Europa si deve liberare dall’eredità colonialista per presentarsi con un volto da vero partner. Troppi “piani marshall” sono stati annunciati senza seguiti. Una politica basata sul controllo delle migrazioni (come quella dell’ex-ministro dell’Interno Marco Minniti) ottiene l’effetto contrario: molti giovani africani sentono la possibilità di migrare come un loro diritto inalienabile. Per convincerli ci vuole qualcosa di più.

Il bisogno che hanno le nostre imprese di internazionalizzarsi potrebbe costituire uno spunto interessante ma si tratta di un lavoro che ha bisogno di tempo, creatività e continuità. Anche in questo consiste la produzione di un “pensiero” con cui stare oggi in Africa.

Takouba è l’ultima invenzione sul terreno militare: i successi francesi contro l’Isis del Grande Sahara nella zona delle “tre frontiere” (Mali-Niger-Burkina) hanno convinto gli esperti militari che truppe speciali ben addestrate possono ottenere buoni risultati.

(Abdelmalek Droukdel, leader del braccio Nord Africa di al-Qaida, ucciso dall’esercito francese a giugno, Foto LaPresse)

La recente eliminazione di Abdelmalek Droukdel (uno dei capi delle milizie più agguerrite, algerino ricercato addirittura dal 1993) è un segnale in questa direzione. Tuttavia non si intravvede dove stia la riflessione per costruire una prospettiva a medio-lungo termine: conoscere i popoli del Sahel, i loro interessi e le loro paure; comprendere gli effetti sull’ambiente per popolazioni che vivono in zone aride o semiaride; analizzare i flussi e movimenti delle popolazioni; capire perché molte tribù accettano di passare coi jihadisti; sostenere leader democratici e non corrotti ecc.

A Roma, Bruxelles, Parigi e Berlino ci deve impegnare a “riscoprire” un’Africa nuova, diversa, cambiata. Dare risposte anche economiche e non solo armate è un inizio. Questo tempo del Covid ci consente la possibilità di cooperare a livello sanitario. Le cose che mancano di più alla gente in Africa sono sempre le stesse: ospedali e scuole.

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