L’8 ottobre del 2020 il senatore repubblicano dello Utah Mike Lee ha fatto un tweet molto strano: «Non siamo una democrazia». Lo diceva a corredo del dibattito tra i candidati alla vicepresidenza, Mike Pence e Kamala Harris.

Ha precisato poi che intendeva dire che gli Stati Uniti in realtà sono una «repubblica costituzionale» dove ciò che conta è «il raggiungimento della prosperità».

In conclusione, diceva che la «democrazia senza freni» può minare questo obiettivo. Tutto questo succedeva molto prima dell’assalto di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 e della corsa a controllare i processi elettorali che percorre l’America di oggi.

Al netto della lettura capziosa del senatore Lee, che suggerisce in modo subdolo che tutto sommato non è male che una minoranza abbia le redini del governo del paese, l’idea che la democrazia fosse l’anticamera di un governo della folla urlante è alquanto datata, con radici risalenti addirittura a Platone.

Negli Stati Uniti l’idea che dovessero votare solo coloro che possedevano certi requisiti di proprietà era diffusa in quasi tutti i tredici stati aderenti alla dichiarazione d’Indipendenza, con l’eccezione del Vermont.

C’era anche un sostegno filosofico a tale tesi, propugnato dal senatore John Calhoun della South Carolina: nella sua Disquisizione sul governo, pubblicata nel 1851, enunciò la teoria delle «maggioranze concorrenti».

In sintesi: se una minoranza ritiene che la maggioranza violi le sue libertà fondamentali, può ribellarsi. Una teoria che nel corso del Novecento sarebbe stata usata con successo nei tribunali federali dagli esponenti del movimento per i diritti civili degli afroamericani ma che venne concepita per aiutare gli stati schiavisti a resistere ad eventuali imposizioni.

Il trumpismo è vivo

(AP)

Dopo l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021 molti pensavano che il trumpismo avesse le ore contate. E che sarebbe stato lo stesso anche per Donald Trump.

Niente di più falso. Un partito totalmente senza idee e senza bussola che non siano «la completa fiducia nel presidente Donald Trump» (come dichiarato nella brevissima piattaforma programmatica del 2020) non ha altre alternative che cercare di accontentare una base militante che crede fermamente che le elezioni siano state rubate, nel migliore dei casi.

Nel peggiore, che Trump sia tuttora il presidente legittimo che aspetta soltanto il momento propizio per tornare al potere. Secondo il monitoraggio di Protect Democracy, un’organizzazione fondata nel 2016 da Ian Bassin, Justin Florence ed Emily Loeb, tre ex collaboratori dell’ufficio legale della Casa Bianca dell’epoca di Barack Obama, dall’inizio del 2021 sono stati presentati 216 disegni di legge in 41 stati che mirano a mettere sotto forme di controllo politico il processo elettorale.

Si va dall’impedire di dare cibo e acqua a chi sta in fila per votare al mettere sotto controllo di rappresentanti partitici il processo elettorale, per citare due esempi dello stato della Georgia.

Questi però sono i cosiddetti provvedimenti che badano alle “minuzie”, si legge nel report. Due sono gli altri cardini della strategia repubblicana di porre sotto controllo il processo elettorale. Ce n’era stato un anticipo nel 2018, quando in Wisconsin i due rami del parlamento locale, saldamente controllati dal partito repubblicano in virtù di una furba disposizione dei distretti elettorali, hanno tentato di approvare a colpi di maggioranza qualificata provvedimenti che togliessero al governatore democratico Tony Evers la maggior parte dei poteri di nomina delle cariche statali.

Pressioni sui funzionari

Infine, c’è l’ultima carta, la più brutale: fare pressione sui funzionari pubblici noti per la loro terzietà affinché cedano il posto a militanti di provata fede trumpista.

È accaduto, ad esempio, lo scorso ottobre, nella contea rurale di Hood, in Texas: qui nel 2020 il ticket repubblicano ha conquistato un impressionante 81 per cento dei voti. Niente di cui lamentarsi, in teoria.

Invece la funzionaria responsabile della certificazione del voto è stata allontanata dopo una lunga campagna denigratoria dove veniva accusata sui social media di avere «un piano segreto per attuare un programma liberal» per fare posto a un militante approvato dalla locale associazione repubblicana.

Anche in altri stati gli ispettori elettorali sono stati allontanati in gran numero: un terzo ha lasciato l’incarico in Pennsylvania mentre uno su quattro ha presentato le proprie dimissioni in Ohio, secondo una stima dell’Associated Press.

Una tendenza inquietante che sembra confermare l’assunto di Protect Democracy, che parla di «una crisi democratica al rallentatore».

Un altro indizio del fatto che i repubblicani post Trump erano pronti a cestinare il concetto di democrazia, sulla cui difesa a livello mondiale la presidenza di George W. Bush aveva puntato molto, è nella prefazione che Tucker Carlson scrisse al libro dell’ex consigliere trumpiano Roger Stone, Stone’s Rules, pubblicato nel 2018: il tribuno di Fox News elogiava quanto fatto da Stone in Florida nel 2000 per «sovvertire la democrazia».

Segno che, se nel 2021 l’eversione permanente appare come un fenomeno non più ignorabile, certamente gli indizi che hanno portato a questa evoluzione erano già presenti da tempo.

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