«Io non c’entro», twittava domenica pomeriggio Jair Bolsonaro dalla Florida, mentre i suoi devastavano i tre palazzi del potere a Brasilia, spaccando tutto, rubando armi, telefonini, computer, deturpando quadri di valore, persino defecando sulle poltrone dei ministri, e da perfetti imbecilli mandando in rete i video e le foto che li incrimineranno.

«Sono azioni come quelle praticate dalla sinistra nel 2013 e 2017», minimizzava in seguito l’ex presidente, mentendo come ha fatto per ben 6.676 volte in quattro anni, calcolo della agenzia di fact checking Aos Fatos.

In realtà non si era mai visto niente di simile a Brasilia. Persino l’ultimo (e vero) golpe militare, nel 1964, era stato meno turbolento.

La differenza è che allora c’erano in campo l’esercito, l’appoggio degli Stati Uniti, mille interessi nazionali e internazionali, insomma tutto il campionario dei colpi di stato latinoamericani del secolo scorso. Tanto che le tenebre scesero sul Brasile per durare vent’anni e più.

La domanda è ora cosa ne sarà di Jair Bolsonaro, l’uomo che ha occupato a lungo uno scranno alla Camera come unico rappresentante e nostalgico di quella dittatura, e che è poi diventato presidente solo grazie al fatto che il Brasile – a differenza di altri paesi del continente – sui suoi anni di piombo ha usato la spugna: mai una condanna, mai una vera abiura da parte delle stesse forze armate.

Bolsonaro, come tutto il mondo ormai ha saputo, è in un resort di connazionali in Florida, ospite nella villa di un campione di lotta Mma. Orlando, il sogno della classe media emergente brasiliana.

Far finta di portare i bambini a conoscere Topolino a Disney World e godersi un tropico borghese da primo mondo, senza poveri e neri tra i piedi. Bolsonaro è lì dalla vigilia dell’insediamento di Lula, ha usato per l’ultima volta l’aereo di stato e i privilegi del potere.

Da allora manda video su TikTok dove si fa selfie con i brasiliani, e passeggia da solo al supermercato in bermuda. L’ex presidente che non ha mai riconosciuto la sconfitta si è “trasferito” negli Stati Uniti per non partecipare alla cerimonia con Lula del 1° gennaio, nella quale avrebbe dovuto passare al vincitore la fascia presidenziale.

L’aereo di stato nel frattempo ha fatto ritorno a Brasilia e lo usa Lula, mentre sulla data di ritorno del fuggitivo non ci sono indicazioni.

Fino a domenica scorsa, Bolsonaro già aveva alcune buone ragioni per temere la giustizia del suo paese, visto che ha perduto ogni forma di immunità. E oggi?

Il giudice

Il protagonista di queste ore non è il legittimo presidente Lula, che non può molto, ma il vero grande nemico di Bolsonaro, il giudice della Corte suprema Alexandre de Moraes.

Da anni gli estremisti di destra sono indottrinati dal clan Bolsonaro a considerarlo il peggio del peggio. Nelle invasioni di domenica il palazzo dove lavora Moraes e il suo ufficio personale hanno subìto i danni peggiori.

Come insegnano tutti i dittatori e gli autocrati del nostro millennio, oggi i golpe si fanno a rate, liquidando a poco a poco l’indipendenza del potere giudiziario. Russia, Venezuela, Turchia eccetera.

In Brasile la Corte suprema ha invece resistito a Bolsonaro senza perdere un colpo, e Moraes ne è il simbolo, avendo anche presieduto l’authority elettorale.

Ieri i teppisti esibivano nei video la porta del suo ufficio con tanto di targhetta, strappata e portata via in strada come trofeo. Ma sarà ancora lui ad avere tra le mani il destino personale di Bolsonaro.

E in queste ore, insieme ai colleghi non allineati della Corte –  9 su 11, due sono bolsonaristi – si sta muovendo sia sulla stretta attualità, sia pensando a cosa fare con il mentore del vandalismo.

Per quanto riguarda le reazioni ai fatti di domenica, i giudici sono intervenuti sulle connivenze a Brasilia e sui gruppi golpisti ancora in attività nelle piazze.

Il governatore rimosso

Moraes ha ordinato la rimozione per 90 giorni del governatore del Distretto federale Ibaneis Rocha, per «condotta dolosa e nociva».

Quest’ultimo aveva inutilmente tentato di scaricare le colpe sul responsabile dell’ordine pubblico Anderson Torres, amico intimo di Bolsonaro, facendolo fuori già ieri. Ma non è servito.

Nel mondo sono circolate immagini inequivocabili della tranquilla passeggiata dei teppisti verso i palazzi. La polizia di Brasilia ha lasciato passare, addirittura scortato, il corteo.

Quando si è trattato di tirar giù le ultime transenne, c’erano centinaia di assatanati contro una decina di poliziotti disarmati e soltanto con lo spray urticante in mano.

In alcune immagini i poliziotti familiarizzano con gli invasori o guardano dall’altra parte. Anche Torres, che potrebbe venir arrestato, è in vacanza in Florida.

Qualcuno lo accusa di aver incontrato Bolsonaro prima dei fatti di Brasilia, ma entrambi smentiscono. Lula ha annunciato che il governo federale, come prevede la Costituzione, commissionerà da oggi l’ordine pubblico nella capitale, togliendolo ai fiancheggiatori del golpe.

È un po’ una decisione a buoi scappati, ma è l’unica possibile secondo le regole democratiche.

Sempre Moraes, invece, ha ordinato finalmente lo smantellamento degli accampamenti dei bolsonaristi in tutto il Brasile.

Alcuni sono in piedi dal giorno della vittoria di Lula, il 30 ottobre scorso. E sono vere e proprie cittadelle golpiste, dove si canta si mangia e si beve giorno e notte, chiedendo l’intervento delle forze armate per evitare l’ascesa al potere del “ladro” e “comunista” Lula.

Nessuno di questi appelli ha sortito effetto, ma i militari hanno chiuso un occhio sui bivacchi fino al 31 dicembre quando erano sotto il controllo dei generali di Bolsonaro.

Con il cambio della guardia c’è stata un po’ di titubanza, con il nuovo ministro della Difesa di Lula che sperava che i presìdi si sciogliessero per stanchezza e altri membri del governo che chiedevano un intervento. Oggi il dilemma ovviamente non esiste più.

L’accampamento di Brasilia, da dove è partito il tutto, è stato smantellato ieri mattina, e 1.200 irriducibili sono stati arrestati. Lo stesso è avvenuto nel centro di Rio de Janeiro e in altre città grandi e piccole.

Insieme ai teppisti presi in flagrante nei palazzi, in questo momento ci sono circa 1.500 bolsonaristi sotto fermo, tra cui 176 sono donne. Senza considerare tutti coloro che verranno riconosciuti nei video e nelle foto.

Gli 80 autobus che hanno portato i manifestanti nella capitale sono sotto sequestro, si indaga anche sui finanziatori. Se prendesse piedi l’ipotesi di accusa di terrorismo, le pene sarebbero pesantissime, fino a 30 anni di reclusione.

Può essere incriminato?

La quasi totalità dei commenti in Brasile indicano l'inequivocabile responsabilità, almeno morale, di Jair Bolsonaro sulla devastazioni di Brasilia.

Ma può arrivare una incriminazione all’ex presidente? E come si comporteranno gli Stati Uniti davanti a un eventuale mandato di cattura, o addirittura una richiesta di estradizione?

Moraes aveva tra le mani già prima di domenica un dossier pesante contro Bolsonaro, quello sulla propagazione di fake news e sulle cosiddette milizie digitali, organizzate dal figlio Carlos.

Poi c’è il verdetto, lo scorso anno, della commissione parlamentare di inchiesta sul Covid, che ha accusato Bolsonaro di ritardi sull’acquisto dei vaccini e per aver spinto cure inesistenti come quella con la clorochina.

Da allora la situazione per Bolsonaro è solo peggiorata: dal 1° gennaio non gode più di immunità e qualunque magistrato ordinario può occuparsi di lui, gli appelli al golpe dei suoi accoliti sono reato, per non parlare di tutto quello che è successo a Brasilia domenica.

Ma è opinione abbastanza diffusa che, se qualche nuovo capo d’accusa dovesse cadere sulla testa di Bolsonaro, ciò non sarà immediato. La ferita di Brasilia è ancora aperta e la normalizzazione del paese tutta da costruire.

L’esperienza degli Stati Uniti non è confortante. Si immaginava la fine del trumpismo radicale dopo l’attacco al Campidoglio, invece si è consolidato.

Bolsonaro ha ancora il consenso di metà dell’elettorato, margini per avere ancora vandali o golpisti nelle piazze ce ne sono parecchi anche dopo una retata di centinaia di arresti.

© Riproduzione riservata