Divide et impera. Può essere riassunto così il nuovo corso intrapreso dal governo nigeriano per piegare una volta per tutte il gruppo terroristico jihadista Boko Haram. Dopo anni di tentativi falliti e umiliazioni subite sul campo, dopo sforzi reiterati di sconfiggerlo sul piano militare, il governo di Abuja è ricorso a un metodo assolutamente innovativo che, pur accompagnato da numerose critiche, sta ottenendo risultati.

Fare la pace

Il programma top-secret attivato dai servizi del Dds (Domestic spy service) noto con il nome di sulhu – il termine arabo per “fare la pace” – punta a convincere membri senior della milizia armata, specie con posizioni apicali, a lasciare la foresta ed entrare in programmi di reintegro nella società a spese del governo.

Il miliziano che accetta, viene inserito in un percorso di riabilitazione che prevede formazione alla legalità, counselling psicologico e terapie psico-sociali, al termine del quale riceverà un attestato.

Il “pentito” a quel punto, sarà trasferito in una località tra quelle prescelte assieme alla sua famiglia, riceverà alloggio, sostegno per l’apertura di una attività lavorativa che garantisca entrate fisse a lui e al resto dei componenti e potrà immaginare di rifarsi una vita e integrarsi in mezzo a coloro che un tempo sterminava.

I risultati

Solo nelle ultime settimane, oltre mille capi jihadisti hanno deposto le armi. Vivranno prevalentemente in aree dello stato del Borno, roccaforte di Boko Haram, più o meno pacificamente, nella speranza di non essere riconosciuti o di venire prima o poi accettati come realmente pentiti, uomini nuovi, pronti a collaborare con le comunità locali per il bene della Nigeria.

Così facendo, il governo centrale spera di frammentare progressivamente il già diviso gruppo terroristico, sottrarre forze umane e risorse militari, e fiaccare fino all’esaurimento la leadership costringendola a una resa definitiva e portando il più che decennale conflitto a una conclusione.

La Guantanamo nigeriana

La strategia benedetta dal presidente Buhari, alti rappresentanti del quale hanno addirittura ricevuto una serie di disertori ad Abuja, segna una svolta a 360° nella linea, di confronto prevalentemente militare o punitivo, fin qui condotta dal governo. Riguardo quest’ultimo metodo, l’esempio del fallimento forse più eclatante sono le detenzioni nelle famigerate Giwa Barracks, la Guantanamo nigeriana, dove in condizioni medievali sono reclusi migliaia di sospettati di terrorismo.

Boko Haram – in lingua ciadica letteralmente «l’istruzione occidentale è vietata» – ha mosso i primi passi nel 2002 per opera di Mohammed Yusuf, un divulgatore sunnita, nella città di Maiduguri, stato del Borno, estrema propaggine nord-orientale della Nigeria, a un passo da Ciad e Niger.

Inizialmente il gruppo ha avuto più le apparenze di una setta islamica dedita all’assistenza ai poveri e alla formazione rigidamente coranica dei bambini oltre che alla missione.

Ha proposto un mix di dottrine sociali, fiera opposizione a ogni possibile influsso occidentale nella vita quotidiana e farneticazioni su possibili ritorni all’epoca d’oro islamica.

Fin qui, però, il gruppo è rimasto nell’alveo dell’attività pacifica, perlomeno disarmata.

Il califfato

Sul finire del primo decennio del secolo, invece, ha assunto sempre di più le sembianze di un gruppo di attivisti pro sharia il cui principale obiettivo sarebbe combattere con ogni mezzo disponibile lo stato federale e instaurare un califfato nel Borno governato da Ali Modu Sheriff (figura controversa accusata da Stephen Davies, un negoziatore per la liberazione di ostaggi australiano, addirittura di fiancheggiare e finanziare Boko Haram).

È stato subito scontro aperto. Yusuf ha chiamato alla guerra santa i suoi seguaci e programmato i primi attacchi. La sua immediata uccisione da parte della polizia federale ha scatenato la rivolta dei suoi e innescato in modo incredibilmente rapido la miccia del conflitto. Morto Yusuf, il potere è passato al vice, Abubakar Shekau, che punta ad al qeidizzare il movimento stringendo alleanze strategiche che portano soldi e know-how ma anche divisioni all’interno e successivi splinter group.

Nel 2015 Shekau si è infilato nel flusso creato dell’irrompere sulla scena geopolitica dell’Isis e il gruppo ha cambiato nome: Islamic state of west Africa province (Iswap). Si susseguono faide interne e spaccature epocali, ma il livello dello scontro non decresce e ai continui rapimenti – il più noto dei quali si consuma nel 2014 quando 270 ragazze vengono sequestrate dalla scuola superiore di Chibok, una cittadina nel Borno (un centinaio delle quali sono tuttora disperse) – si aggiungono almeno 35.000 omicidi diretti, 350.000 se si considerano le vittime della crisi umanitaria, oltre a milioni di profughi interni ed esterni.

Dubbi e certezze

Come riporta in un approfondito articolo apparso lo scorso agosto The New Humanitarian, dal 2019 sono 150 i mujahideen che si sono arresi al governo centrale mentre, solo nelle ultime settimane, sarebbero oltre mille i guerriglieri, tutti con ruoli primari, ad aver varcato il confine tra lotta ferocemente armata e programmi di recupero. Le recentissime e numerose defezioni, sarebbero riconducibili alla morte in maggio di Abubakar Shekau e la successiva caduta di leadership nel movimento in cui i vari capi accusano gli altri di tradimento del fondatore e di “occidentalizzazione”.

La strategia, quindi, funziona. Ma a quale prezzo? E reggerà alla prova del tempo? «Immaginatevi le stragi commesse dai nazisti nel nord Italia o in qualsiasi altra parte d’Europa durante la Seconda guerra mondiale – commenta un ricercatore nigeriano contattato da Domani che preferisce restare anonimo visto il relativo rischio che si corre a parlare del programma fin qui piuttosto secretato – e pensate se dopo qualche anno, i sopravvissuti ai massacri, si ritrovassero come fornaio, falegname, oste o commerciante, alcuni dei loro aguzzini resisi protagonisti di eccidi senza pietà, stupri di massa, rapimenti, conversioni forzate, riabilitati senza neanche aver subito la benché minima punizione. Cosa dovrebbero pensare? È difficile immaginare che un simile programma di integrazione regga e che non porti a ulteriori scontri all’interno dei villaggi».

A livello nazionale, poi, l’opinione pubblica, ancora non completamente consapevole della nuova strada imboccata dal governo, potrebbe reagire male nell’apprendere che a sostenere i costi della nuova vita di migliaia di ex combattenti e loro famigliari, siano i contribuenti.

Ma l’esecutivo non vuole sentire lamentele, prosegue per la sua via e insiste nel dire che Buahari ha mostrato clemenza non perdono. A dargli manforte, in ogni caso, sono in tanti tra osservatori e fautori del dialogo. Per questi ultimi è proprio questa strategia ad aver dato i primi e pochi frutti nella campagna anti Boko Haram.

Nel 2018, ad esempio, quando furono rapite 105 studentesse in una piccola cittadina dello stato di Yobe, il rapido rilascio di tutte (tranne una, l’unica cristiana, di soli 14 anni), è avvenuto grazie all’innesco immediato di un canale di dialogo. La strategia del contatto sotterraneo va avanti in realtà da anni e sembra che i timidi successi raggiunti più da questa via che dallo scontro militare, abbiano convinto Buhari e il suo esecutivo a cambiare approccio.

Che sia per la capacità attrattiva di una nuova vita tranquilla fatta di lavoro, famiglia, figli inseriti a scuola e futuro molto più certo, oppure per il vulnus creato in un movimento, una volta granitico, dalle divisioni interne, o ancora per la certificazione ormai chiara dell’impossibilità, dopo oltre dieci anni di conflitto, di stabilire un califfato in Nigeria, sulhu va avanti.

La popolazione civile

Nella propria valutazione del progetto, la popolazione civile, prima vittima di questa assurda guerra, farà certamente pesare le ferite mai rimarginabili inferte dal gruppo terroristico, ma anche una irrefrenabile aspirazione alla pace dopo un lungo, buio periodo di orrore.

«Se sulhu sarà la via per ritornare alle nostre fattorie e ai nostri villaggi – spiega a The New Humanitarian Abba, un imprenditore agricolo costretto con la famiglia da anni in un campo profughi (il nome scelto dalla rivista è di fantasia) – allora ben venga». Per amore della pace Abba sarebbe pronto anche a stringere la mano agli ex combattenti: «Fateli venire, troveremo il modo di riniziare insieme».

© Riproduzione riservata