Nel settembre del 2020 i membri della comunità indigena Misak a Popayán hanno abbattuto una statua del conquistatore spagnolo Sebastián de Belalcázar, che aveva fondato la città nel sud ovest della Colombia nel 1537.

I Misak hanno sottoposto Belalcázar a un simbolico processo post mortem e lo hanno giudicato colpevole di riduzione in schiavitù e genocidio. La sentenza è stata la rimozione dei suoi monumenti.

Sette mesi dopo, nell’aprile del 2021, i Misak hanno abbattuto un’altra statua di Belalcázar nella vicina Cali, parte di una recente ondata di proteste contro il presidente colombiano Iván Duque.

Queste proteste hanno portato anche alla rimozione delle statue di Gonzalo Jiménez de Quesada (il conquistatore che fondò Bogotá), Cristoforo Colombo e di Isabella, la cattolica regina di Spagna che aveva finanziato i viaggi di Colombo. 

Anche se lo “sciopero nazionale” (nome con cui vengono chiamate le proteste recenti) comprendeva gruppi indigeni come i Mizak, i suoi organizzatori originari erano sindacati, studenti e altri attivisti non indigeni di sinistra.

Legittimando gli attacchi contro le rappresentazioni di conquistadores, esploratori, monarchi e presidenti, e dipingendo la lotta dei popoli indigeni oppressi come la propria, gli studenti e gli attivisti dietro alle recenti proteste hanno cercato di mantenere un alto livello morale nella loro opposizione al governo di destra di Duque.

Le teorie dell’oppressione

Le teorie dell’oppressione sono state moneta corrente nella politica e nelle università latinoamericane per oltre mezzo secolo, alla luce della storia del colonialismo della regione.

Una formulazione classica si può trovare in Pedagogia degli oppressi, il trattato sull’istruzione del 1968 del marxista brasiliano Paulo Freire. Il libro descrive l’istruzione tradizionale come una pratica oppressiva in cui gli studenti sono depositari delle conoscenze impartite dagli insegnanti.

Freire propone un “modello dialogico” alternativo, in cui gli studenti possono comprendere la loro condizione di oppressione e liberare loro stessi e tutti gli altri.

Una visione del mondo come quella di Freire ha informato il pensiero politico dell’America latina da diversi decenni ormai. Ha fatto sì che i rivoluzionari latinoamericani concepissero la propria lotta politica come di natura educativa, e l’educazione autentica come fondamentalmente rivoluzionaria.

Questo era alla base del marxismo anti imperialista che ha dominato la sinistra latinoamericana nella seconda metà del ventesimo secolo: Freire ebbe un’influenza diretta sul movimento Unidad Popular di Allende in Cile e sul governo sandinista in Nicaragua.

Nelle proteste recenti in Colombia una delle icone del movimento studentesco è stato Camilo Torres, un sacerdote cattolico socialista che si è unito alla guerriglia comunista dell’Eln negli anni Sessanta e di cui si parla positivamente nella Pedagogia degli oppressi.

Eppure, mentre le proteste sociali che si basano sulle teorie dell’oppressione non sono una novità in America latina, il diffuso moto per abbattere le statue che si è visto nel 2021 è una sorta di novità.

Almeno in parte è un’importazione dagli Stati Uniti, una replica del movimento per rimuovere i monumenti confederati, che si è intensificato dopo le elezioni del 2016 e la manifestazione del 2017 “Unite the Right”, per l’unità della destra.

Questo fa parte di una tendenza più ampia nella politica e nella cultura americane che mette al centro la giustizia sociale, l’uguaglianza e l’identità. E sta trasformando i modi in cui la gente protesta in Colombia e negli altri paesi dell’America latina: in Messico, Cile e Bolivia le statue di Colombo e di altri protagonisti della colonizzazione spagnola negli ultimi anni sono state rimosse o vandalizzate.

Due simboli comuni nelle recenti proteste colombiane contro i gravi abusi della polizia sono stati l’hashtag #ColombianLivesMatter e l’acronimo inglese Acab (che sta per “All Cops Are Bastards”, tutti i poliziotti sono bastardi).

Sembra che la cultura  “woke” sia una moda che si è diffusa dagli Stati Uniti a paesi come la Colombia trovando un ambiente ricettivo nella sinistra latinoamericana.

I principi del nuovo progressismo trovano corrispondenza in una regione in cui l’anticolonialismo e la lotta all’oppressione hanno per lungo tempo definito la politica di sinistra.

Il passaggio all’identità

La sinistra denuncia l’influenza americana nella regione come una continuazione dell’assoggettamento dei loro paesi; dichiarano (non del tutto senza motivo) che dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Spagna, le élite dell’America latina non volevano trasformare la struttura sociale ereditata dai tempi delle colonie e in seguito hanno consentito nuove forme di oppressione coloniale da parte di altre potenze straniere. 

Ora questa battaglia contro il colonialismo è stata trasformata dalla nozione attuale di identità. Questo spiega perché, accanto a Colombo, ai conquistadores e ai monarchi cattolici, sono state prese di mira anche le statue degli eroi dell’indipendenza colombiana: figure come Francisco de Paula Santander, un liberale e uno dei primi presidenti della Colombia, e Simón Bolívar, il liberatore di quelli che oggi sono Colombia, Venezuela, Ecuador, Perú, Bolivia e Panama.

Secondo alcuni gruppi indigeni sopravvissuti, molti colombiani di origine spagnola che hanno combattuto per l’indipendenza hanno perpetuato l’oppressione del loro popolo dopo la fine del dominio spagnolo. Sono considerati «gli eredi del lascito genocida (…) della colonizzazione europea, capitalista, militare, cristiana, patriarcale e bianca».

Allo stesso tempo, le popolazioni indigene in tanti paesi dell’America latina sono trattate come dotate di un’identità moralmente superiore e di “memoria e saggezza ancestrali” e sono portate in primo piano nella lotta politica da parti della sinistra.

Se le vere vittime della storia in America latina vogliono rimuovere le statue delle persone che hanno combattuto per l’indipendenza, allora, secondo molti attivisti, questa è la cosa moralmente giusta da fare.

Questo non vuol dire gli indigeni in Colombia e altrove non siano vittime di crimini terribili del passato e del presente, ma si tratta di un grande salto passare dall’osservare il fatto a estenderlo a identità globale del popolo in questione, infine trarne una giustizia morale.

Ora più che mai c’è un clima, per lo più evidente nei social media, in cui tutto ciò che è occidente puzza di colonialismo e deve essere rifiutato in quanto forma di oppressione. Noi latinoamericani dovremmo vergognarci di parlare una lingua europea e del fatto che la nostra cultura sia principalmente occidentale.

E se leggiamo, per dirne uno, il Don Chisciotte invece di Popul Vuh, dobbiamo prepararci a giustificarci in maniera adeguata e a condannare l’imperialismo che si incontra negli scritti di Cervantes. 

Una nuova sinistra

Tutto questo succede mentre una nuova generazione di leader latinoamericani di sinistra sta emergendo. Dopo aver preso il potere in Messico e Argentina prima della pandemia, la sinistra ha vinto le elezioni in Honduras, Perù e Cile nel 2021, spesso presentandosi sostanzialmente diversa dai presidenti socialisti che hanno dominato il continente negli anni duemila.

Alcuni leader stanno abbracciando la nuova politica “woke”. È chiaramente il caso di Gabriel Boric, il presidente eletto cileno. Il Washington Post scrive che «le posizioni più sfumate di Boric lo hanno reso il primo presidente woke dell’America Latina, un leader progettato per un’età di pronomi di genere neutrali e Greta Thunberg».

Questo trentacinquenne «millennial con la barba» è comparso sulla scena pubblica del suo paese come leader nelle proteste sociali del 2010. Accanto a una serie di necessarie riforme fiscali e previdenziali, ha messo al centro delle sue proposte le cause degli omosessuali e dei trans, i diritti degli indigeni e il cambiamento climatico.

Questa nuova iterazione della sinistra latinoamericana è un mix di continuità e cambiamento. Conserva le preoccupazioni economiche della vecchia sinistra: durante la campagna che ha portato alla sua vittoria, Boric ha annunciato che «se il Cile è stato il luogo di nascita del neoliberismo, sarà anche il suo cimitero».

“Neoliberista” è un termine generico che la sinistra latinoamericana ha usato a partire dagli anni Settanta come offesa per diversi nemici, a volte in maniera intercambiabile con “imperialista”, “yankee” e “fascista”.

Oggi, la gamma di termini dispregiativi della sinistra si è ampliata fino a includere “transfobico”, “omofobo” o “suprematista bianco”.

In modo incoraggiante, un modo in cui i nuovi leader di sinistra come Boric si distinguono è denunciando la corruzione e l’autoritarismo che hanno caratterizzato i precedenti governi socialisti.

Ma resta da vedere se il nuovo discorso sull’identità e l’attenzione sulla razza e sul genere aiuteranno davvero la sinistra a realizzare i cambiamenti di cui l’America Latina ha bisogno, rompendo significativamente con il passato e proteggendo i diritti e le libertà.

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