Fino a che punto arriva il regime per reprimere le proteste in corso in Iran? Le notizie che si rincorrono descrivono una repressione senza limiti, sia nelle strade che nelle aule dove si tengono i processi-farsa. Mohsen Shekari aveva solo 23 anni, era stato condannato a morte ed è stato impiccato questo giovedì mattina; nelle stesse ore, altre due persone condannate per le proteste – Saman Seydi e Mohammad Boroghani – venivano messe in isolamento nel braccio della morte, in vista dell’esecuzione. Intanto le testimonianze raccolte sul campo dal Guardian ricostruiscono la pratica ricorrente di colpire le donne che protestano con spari mirati a volto, seno e genitali.

I processi farsa

Un tribunale ha condannato il 23enne Mohsen Shekari per la sua «inimicizia contro Dio», secondo quanto riferito dai media statali. La sua “colpa” era di essere un rivoltoso: il 25 settembre aveva ostruito una delle strade principali della capitale iraniana e ferito un paramilitare; l’agenzia iraniana Mizan ha diffuso anche l’ipotesi che sia stato pagato per farlo, il che alimenta la versione del regime secondo il quale le proteste sono state istigate dai «nemici internazionali». Il professor Mahmood Amiry-Moghaddam, che dirige l’organizzazione non governativa Iran Human Rights, evidenzia la gravità dell’esecuzione del manifestante, resa ancor più pesante dalla «mancanza di un vero processo» e quindi dall’impossibilità per lui di esercitare una difesa. La “corte rivoluzionaria di Teheran” opera a porte chiuse, e solo dopo l’esecuzione del ragazzo la tv di stato ha diffuso un pacchetto di immagini in cui si mostra il giudice, Abolghassem Salavati, e le parti in causa. In realtà «si tratta di un processo sommario, senza un avvocato di propria scelta, durato un niente», spiega Riccardo Noury di Amnesty.

Le autorità giudiziarie iraniane hanno già annunciato la condanna a morte di 11 persone, ma – ricostruisce Amnesty – «almeno 28, di cui tre minorenni, rischiano l’esecuzione» per aver protestato contro il regime. Queste 28 persone «sono state sottoposte a processi iniqui: sono stati negati i loro diritti a essere difesi da un avvocato di propria scelta, alla presunzione di innocenza, ad avere un processo giusto e pubblico. Secondo fonti ben informate numerosi imputati sono stati torturati e le confessioni estorte con la tortura sono state usate come prove». Le confessioni vengono mandate in tv in prima serata, racconta Noury.

Intervento internazionale

Le proteste iniziate in Iran in autunno dopo la morte di Mahsa Amini sono state inquadrate dal regime come «istigate da nemici stranieri» e represse col sangue. L’inchiesta pubblicata dal Guardian, con le testimonianze dei medici iraniani, ricostruisce anche la pratica sistematica di prendere di mira le donne che protestano in punti specifici: il volto, il seno, i genitali. Stando ai dati raccolti dagli attivisti per i diritti umani e diffuse dall’agenzia Hrana, 475 persone sono state uccise durante le proteste, oltre 18mila sono state arrestate. «Rischiamo di aggiungere alla repressione in strada anche quella giudiziaria, nel contesto di una mancanza di trasparenza completa da parte delle autorità iraniane», dice Noury di Amnesty. «Mi chiedo cosa aspettino i governi a condannare questa mattanza. L’Onu ha votato per una commissione di verifica dei fatti ma non è stata ancora formata, il punto è se il paese oggetto della commissione consentirà l’operato effettivo».

Il portavoce di Amnesty Italia lancia un appello che riguarda anche palazzo Chigi: «Chiediamo a tutte le ambasciate presenti nel paese di inviare propri rappresentanti ai processi». Un appello che rafforza quello già arrivato dalla Iran Human Rights, che ha chiesto un’azione urgente da parte della comunità internazionale per fermare l’esecuzione dei manifestanti.

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