Trent’anni dopo la cesura nella storia mondiale rappresentata dal 1989-90 oggi potremmo trovarci di fronte a una nuova svolta. Lo si deciderà nei prossimi mesi, a Bruxelles ma anche a Berlino. Può apparire eccessivo confrontare il superamento dell’ordine mondiale bipolare e la diffusione globale di un capitalismo vincente con il naturale destino di una pandemia. Ma se a questo shock noi europei fossimo in grado di trovare una risposta  costruttiva, un parallelo tra le due cesure sarebbe possibile.

Trent’anni fa, l’unificazione tedesca e quella europea erano connesse come vasi comunicanti. Oggi un legame tra i due processi, allora dato per scontato, non appare altrettanto ovvio. Tuttavia, parlando del 3 ottobre 2020 – la festa nazionale tedesca, rimasta sotto tono per tutti gli ultimi tre decenni –  l’attuale distanza storica tra questi problemi ha fatto in modo che il governo tedesco, finalmente, si tornasse a occupare del compito storico, rimasto incompiuto, della realizzazione politica del futuro europeo.

Questa distanza non deriva soltanto dalla pressione delle turbolenze globali seguite alla crisi del Coronavirus ma anche dalla modifica delle priorità della politica interna, soprattutto perché dopo la crescita di Alternative für Deutschland (AfD) i rapporti di forza tra i partiti sono cambiati. Proprio per questa ragione, trent’anni dopo la svolta epocale del 1989-90, abbiamo una seconda occasione per promuovere, insieme, tanto l’unità tedesca quanto quella europea.

L’unificazione della Germania – Paese diviso per quattro decenni – divenuta possibile da un giorno all’altro, ha determinato una modifica dei rapporti di forza carica di conseguenze. Ciò allora provocò fondate preoccupazioni per un possibile ritorno della «questione tedesca». Mentre gli Stati Uniti sostenevano il cancelliere tedesco, Helmut Kohl, i vicini europei erano preoccupati dallo spettro del possibile ritorno di quella «potenza centrale» che, sin dal tempo del Kaiser Guglielmo II, era stata troppo grande per l’integrazione pacifica nella cerchia dei suoi vicini e troppo piccola per esercitare un ruolo egemone. Questo desiderio di rendere il ruolo tedesco nell’ordinamento europeo irreversibile era, come poi si è visto nel corso della crisi europea a partire dal 2010, fin troppo giustificato.

Diversamente da Margaret Thatcher, che arretrava con preoccupazione, François Mitterrand scelse con coraggio di guardare avanti. Per prevenire l’egoismo nazionale di un vicino, che avrebbe potuto utilizzare la sua forza economica esclusivamente per i propri interessi, Mitterrand pretese da Kohl l’assenso all’introduzione della moneta unica. Gli inizi di questa audace iniziativa, avviata risolutamente da Jacques Delors, risalgono agli anni Settanta, quando l’allora Comunità europea puntò con il Piano Werner alla fondazione di una unione monetaria.

Quel progetto fallì per i successivi, radicali mutamenti nella politica monetaria e per la fine degli accordi di Bretton Woods. Tuttavia, queste idee giocarono un ruolo anche nelle negoziazioni tra Valéry Giscard d’Estaing ed Helmut Schmidt. Allo stesso modo, Kohl – dopo la risoluzione del 9 dicembre 1989 del Consiglio europeo di Strasburgo promossa da Mitterrand – impose, per propria convinzione e contro le resistenze politiche interne, questo collegamento lungimirante tra l’unità nazionale e il pioneristico trattato di Maastricht.

È necessario ora confrontare il processo storico appena tratteggiato con le conseguenze economiche di una pandemia che stanno determinando debiti insostenibili nei più colpiti degli Stati membri dell’Europa occidentale e meridionale, minacciando in questo modo l’esistenza stessa dell’Unione monetaria. È questo oggi il rischio più temuto dall’industria tedesca delle esportazioni, che ha piegato alla propria volontà il governo tedesco, dietro l’insistenza, a lungo respinta, del presidente francese per una maggiore cooperazione europea.

L’offensiva che Angela Merkel ed Emmanuel Macron hanno intrapreso per un fondo di ricostruzione alimentato da crediti a lungo termine dell’Unione europea, a beneficio degli Stati membri che ne hanno bisogno e in gran parte sotto forma di sovvenzioni non rimborsabili, ha condotto a un compromesso significativo.

La decisione di una assunzione congiunta dei debiti europei, resa possibile solo dall’uscita della Gran Bretagna, potrebbe inaugurare il primo impulso davvero significativo all’integrazione post-Maastricht. Tale decisione, va detto, non è in alcun modo da considerarsi cosa fatta, eppure dopo il vertice europeo che l’ha definita Macron è arrivato a considerarla come il momento più importante per l’Europa dalla instaurazione dell’euro». Certo, diversamente da quello che si sarebbe aspettato il presidente francese, Angela Merkel restava fedele allo stile che le è proprio dei piccoli passi. La cancelliera continua a non cercare una soluzione istituzionale duratura, ma solo un risarcimento una tantum per i danni causati dalla pandemia. 

La svolta tedesca della politica europea

Già prima dell’introduzione dell’euro stabilita a Maastricht, anche ai politici coinvolti era chiaro che una moneta comune, privando gli Stati membri economicamente più deboli della possibilità di svalutare la propria moneta, avrebbe rafforzato le disuguaglianze esistenti all’interno della comunità monetaria fino a quando le competenze politiche per varare misure finalizzate a ricomporre tali disuguaglianze sarebbero venute meno. La stabilità può essere raggiunta solo grazie a un’armonizzazione delle politiche fiscali e di bilancio; da ultimo, solo grazie a una politica fiscale, economica e sociale comune. Perciò, già allora la comunità monetaria fu avviata in attesa di un successivo sviluppo verso un’unione politica.

La mancata realizzazione di queste riforme ha condotto, nel corso della crisi finanziaria e delle banche scoppiata nel 2007, alle note misure, realizzate in parte al di fuori del diritto comunitario, e ai relativi conflitti tra i cosiddetti Paesi creditori e debitori, del Nord e del Sud Europa. Anche durante questa crisi, la Germania, in quanto nazione esportatrice, ha resistito e ha rifiutato di compiere passi ulteriori verso l’integrazione.

Wolfgang Schäuble, l’architetto della politica di austerità attuata dalla Germania al Consiglio europeo, ora si rammarica: «Oggi abbiamo bisogno del coraggio che non avemmo nella crisi del 2010 per ottenere finalmente una maggiore integrazione nell’Eurozona. Dobbiamo usare questo sconvolgimento per trasformare l’unione monetaria in un’unione economica attraverso il Fondo europeo per la ricostruzione».

Con «sconvolgimento» Schäuble intende le drastiche conseguenze della pandemia. Ma perché Schäuble e Merkel invitano oggi al coraggio che è loro mancato dieci anni fa? È soltanto il timore, fondato su valutazioni economiche, di un definitivo collasso del progetto europeo a modificare le priorità esistenti e ad annunciare questo imprevisto cambio di rotta?

Prima di rinunciare al ruolo di leader dei «parsimoniosi» a Bruxelles, non solo era necessaria l’approvazione dei sondaggi. Come già in casi precedenti, uno spostamento dell’equilibrio politico interno del potere deve aver modificato anche fattori più rilevanti e decisivi. In effetti, significativa è stata l’assenza di critiche all’interno del partito sul cedimento di Merkel, che in altri casi sarebbero divampate automaticamente.

La cancelliera ha così deciso, quasi dall’oggi al domani, di lavorare senza problemi con Macron e ha accettato un compromesso storico che ha aperto la strada, fino a quel momento sbarrata, a un futuro per l’Unione europea. Ma dov’era la protesta di quella massa di critici nei confronti dell’Europa all’interno del suo partito, della chiassosa corrente economica della Cdu, delle grandi organizzazioni di rappresentanza delle imprese, delle redazioni economiche dei media più rilevanti?

Quello che è cambiato negli ultimi tempi per quanto riguarda la politica interna – e Angela Merkel ha sempre avuto fiuto per queste cose – è il fatto che per la prima volta nella storia della Repubblica federale tedesca si è affermato con successo un partito a destra di Cdu e Csu, che tiene insieme una critica all’Europa con un nazionalismo radicale ed etnocentrico, precedentemente sconosciuto, non più occulto ma ma alla luce del sole.

Fino ad allora, alla leadership della Cdu era sempre riuscito di rivestire il nazionalismo economico tedesco con una retorica europeista. Ma, insieme al cambiamento dell’equilibrio politico del partito, un potenziale di protesta ha trovato il suo linguaggio, a lungo represso nel processo di unificazione tedesco.

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