L’America che prende forma attraverso la squadra di governo di Joe Biden che cosa esprime, cosa rappresenta? Ci racconta di un’America proiettata sul futuro, di un ritorno al passato prossimo obamiano, o addirittura di un’aspirazione a tornare a essere ciò che l’America era venti o trenta anni fa?

L’unica certezza che possiamo esprimere è che le nomine di Biden sono una miscela di necessità impellenti – qualcuno che immediatamente sappia mettere le mani nel motore della macchina ingolfata del governo, impantanata dentro la crisi del Covid e la sofferenza economica – e di rappresentazione di quello che il Partito democratico è, ovvero di ciò che le differenzia in modo netto da quello repubblicano: un partito composto anche da minoranze e donne, che non si trovano lì in rappresentanza di una “quota” ma come parte integrante – da molti anni – dell’establishment del partito e della classe dirigente del paese.

Basta stupirsi per le minoranze

Dopo aver doverosamente sottolineato la potenza simbolica espressa dalla nomina a vicepresidente di Kamala Harris, forse dobbiamo smettere di stupirci, per esempio, che un’afroamericana e una palestinese-americana – rispettivamente Shuwanza Goff e Reema Dodin – ricopriranno un ruolo chiave nella gestione dei rapporti fra presidenza e Congresso. Le due saranno Deputy Director all’Ufficio affari legislativi della Casa Bianca, ma soprattutto sono due giovani funzionarie che hanno già accumulato una grande esperienza nelle istituzioni americane. La loro presenza fa notizia, ma loro sono già l’America del presente.

Lo storico Arnaldo Testi, proprio ieri, sottolineava questo aspetto: la novità non si trova nelle biografie del personale selezionato, ma nel fatto che queste biografie corrispondano a profili ormai più che consolidati dell’establishment del paese.

Insomma, siamo già in un’altra fase e l’amministrazione Biden non fa che mettersi al passo con la realtà. Nella ricerca affannosa di un’etichetta che definisca l’universo della presidenza Biden, d’altronde, dobbiamo tenere a mente due fattori: la dimensione delle crisi – sanitaria ed economica – e la realtà del Partito democratico.

Questa è una presidenza di gestione politica delle emergenze. Una delle prime nomine della nuova Amministrazione è stata quella del chief of staff, Ron Klain. Anche lì, qualche malumore: “ma come? Un vecchissimo sodale di Biden? Un clintoniano di ferro?”. Sì, tutto vero. Eppure non poteva esserci nomina più saggia di quella di Klain: conosce la macchina del governo a livello federale e locale; dovrà essere l’uomo che porta a casa una risposta efficace alla pandemia, per la quale è indispensabile qualcuno che sappia far integrare le politiche di diversi livelli istituzionali; possiede l’esperienza necessaria dove serve (era il “Mr. Ebola” dell’Amministrazione Obama, l’inviato speciale del presidente per la pandemia di inizio decennio) ed è – ecco il partito – un uomo gradito anche a Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Alexandria Ocasio-Cortez.

Oppure che dire dello zar contro il cambiamento climatico, John Kerry? “Ancora lui, il vecchio John Kerry?”. Sì, vero potevano esistere nomine di maggiore rottura. Ma ricordiamoci che John Kerry lavora su questo tema da anni, è stato l’artefice dell’adesione degli Stati Uniti agli accordi di Parigi del 2015 sul clima, ha guidato con Ocasio-Cortez la task force sul cambiamento climatico. Ha buoni rapporti, quindi, con la sinistra del partito, che ha puntato molto su un ambizioso Green new deal.

Kerry propone un’agenda trasformativa come quella di Sanders, su questo tema? No, ma appare serio e credibile anche agli occhi di persone come Varshini Prakash, la co-fondatrice del Sunrise Movement, ovvero l’esercito di riserva dei sanderisti ambientalisti (molto vicini alla Ocasio-Cortez). Ancora equilibri di partito – necessari – ma anche competenza e credibilità internazionale.

Discontinuità al Tesoro

E Janet Yellen? Già presidente della Federal Reserve, è una novità in quanto donna e perché non ha una lunga storia di lavoro nel settore privato. Conosce le banche e i banchieri per aver lavorato dal lato del regolatore (il mestiere è stato spesso appaltato a ex-Goldman Sachs o dintorni).

Dall’osservatorio della Fed Yellen ha seguito la crisi del 2008: a suo modo di vedere fu l’interruzione dello stimolo all’economia a rendere la ripresa cominciata nel 2009 lenta e faticosa. Stavolta, si può immaginare, lavorerà per programmi più robusti e di lunga durata.

Questo atteggiamento, e la sua preoccupazione per i livelli di diseguaglianza, la rendono una persona adatta ad assumere l'incarico nel mezzo di una crisi che sta colpendo soprattutto le categorie più povere del mondo del lavoro. Nel suo primo discorso alla Fed, nel 2014, disse: «Gli ultimi decenni di crescenti disuguaglianze si riassumono in significativi guadagni di reddito e di ricchezza per coloro che si trovano ai vertici e un tenore di vita stagnante per la maggioranza».

Giobbe e Machiavelli

Anche qui c’è esperienza, si tratta di un membro dell’establishment democratico del paese, non è malvisto dalla sinistra del partito. Queste nomine, insomma, ci dicono alcune cose sull’America – come detto, è molto più presente quella fetta di società che il Partito repubblicano tendeva a tagliare fuori: donne e minoranze, ma era quella l’anomalia, non il contrario – e molte sul Partito democratico (e sulla fretta di Biden di essere subito operativo).

Il columnist del Washington Post E.J. Dionne ha scritto: «Oggi, per guidare il partito democratico serve la pazienza di Giobbe e l’astuzia di Machiavelli». Un partito nel quale regna il conflitto interno forse, davvero, ha trovato il suo traghettatore nella guida di “Sleepy Joe”.

Verso dove, lo scopriremo fra quattro anni. Verso dove, dipenderà anche da quanto la società continuerà a premere per chiedere cambiamento, aiutando (o spingendo) Joe Biden a compiere scelte il più possibile coraggiose.

© Riproduzione riservata