Nel mondo di ieri resisteva un minimo di pudore per cercare di occultare i massacri di civili in guerra. E, quando svelati, almeno ci si scusava o si usavano eufemismi, peraltro orrendi, come “danni collaterali”, a sottolineare implicitamente che non erano voluti.

Nel mondo dell’altro ieri ci si ammazzava prevalentemente tra soldati e vigeva una sorta di codice cavalleresco a salvaguardia del resto della popolazione. Un secolo di statistiche disponibili è la dimostrazione pratica di un ribaltamento: Prima guerra mondiale, 90 per cento di vittime militari e 10 per cento civili; Seconda guerra mondiale, la percentuale si equilibra 50-50 (la Shoah); conflitti successivi, 90 per cento civili, 10 per cento militari.

A fotografare la svolta anche la nascita di neologismi. “Pulizia etnica” è il più sinistramente emblematico. “Guerra contro i civili”, il perfezionamento del concetto più neutro di “guerra civile”.

La civiltà al contrario

Era il mondo di ieri, era il mondo dell’altro ieri. E oggi? Oggi le guerre attive in totale sul pianeta sono 31, a cui aggiungere almeno 23 situazioni di crisi (Rapporto di “Action on Armed Violence”) e i passi da gambero nel cammino della civiltà hanno il corollario di un’assuefazione al peggio che cancella l’indignazione, fatte salve alcune frange assai minoritarie.

È la conseguenza di un’accettazione della legge del più forte che sta via via sostituendo, causa l’arroganza delle autocrazie imperialiste, quanto concordato nei trattati internazionali (dalla Conferenza di Helsinki del 1975 alle varie Convenzioni di Ginevra), non sempre rispettati anche in passato, per la verità, ma tuttavia una bussola che regolava i comportamenti degli Stati.

Oggi non ci sono più salvacondotti. Si spara sulla Croce rossa, sugli ambasciatori, persino sui becchini, i funerali sono i luoghi privilegiati per gli artiglieri a causa dell’assembramento di parenti e amici in lutto.

Oggi i massacri di civili non meritano nemmeno una giustificazione. Basta l’autoassoluzione per cui quei bambini, quelle donne, quei vecchi si trovavano in un’area popolata da “nemici”.

Fa nulla se fossero una sorta di “scudi umani”, tanto basta per condannarli a morte perché non esiste più alcun codice morale di comportamento. Persino nei film di Hollywood veniva descritta la ritrosia del cecchino che indugia sul grilletto se nello spazio visivo dello sniper compare un ragazzo innocente e teme di colpirlo.

Così come il marine esita a lanciare una bomba quando assieme ai terroristi da eliminare ci sono dei familiari. Nella contemporaneità, sono remore superate dall’imperativo categorico dell’“Ammazza per non essere ammazzato”, e il nemico non è più solo il soldato, il miliziano, ma la popolazione intera. Tutti colpevoli, dall’infante all’ottuagenario.

Regole fondamentali

Se le guerre hanno preso questa inclinazione e alcune sono più terribili di altre (leggi il Sudan), è vero tuttavia che le due più vicine a noi hanno un peso specifico ancora maggiore nel degrado dei valori. Una, quella d’Ucraina, perché si combatte sul suolo del continente che ha inventato i diritti umani. L’altra perché coinvolge uno stato democratico, Israele, da cui ci si aspetterebbe un maggiore rispetto di alcune regole fondamentali, inderogabili persino in caso di conflitto.

Il patetico tentativo di Donald Trump di coprire l’ultima malefatta dell’esercito del suo sodale Vladimir Putin, degradando a «errore» la carneficina di Sumy, si è scontrato contro la precisazione del Cremlino per cui non è stato affatto un errore. Nella cittadina ucraina era in corso una cerimonia militare, il bersaglio. Una cerimonia, si badi bene, non i preparativi di un attacco. E dunque tanto basta per lanciare ordigni che hanno fatto strage di chiunque si trovasse nei paraggi. Come se appunto fosse normale e l’atto non avesse bisogno di difensori d’ufficio.

Putin sembra voler dire al mondo: «Questa è la guerra nel Ventunesimo secolo, vi piaccia o no. Non c’è alcun tribunale internazionale che mi possa sanzionare, e io tiro dritto imponendo la mia supremazia bellica».

Da ventisei mesi stiamo digerendo l’indigeribile in quel quadrante nord-est dell’Europa. Bombardamenti sulle città, sulle infrastrutture civili, persino a ridosso di centrali nucleari con il rischio di un’Apocalisse, uccisioni indiscriminate di civili, rapimenti di bambini, torture. Eppure l’atteggiamento dominante è quello di reclamare la fine delle ostilità a qualunque costo, riconoscendo le ragioni dell’aggressore pur di non guardare in faccia l’abisso, il degrado della nostra coscienza.

Stando sempre al rapporto di “Action on Armed Violence”, nel 2024 il numero delle vittime civili (feriti e uccisi) ha raggiunto la cifra di 61.353, il 67 per cento in più rispetto all’anno precedente. Non stupisce apprendere che il 55 per cento di quei 61.353 sia stato causato da Israele negli attacchi su Gaza e sul Libano.

Soprattutto Gaza, ovviamente. La doverosa premessa è che il 7 ottobre 2023, l’attacco di Hamas con più di mille morti, è stato un grumo di Olocausto, e una reazione contro i responsabili accettabile. Il problema è che il governo di Benjamin Netanyahu è andato molto oltre, varcando qualunque linea rossa, mentre la comunità internazionale ha reagito solo belando, quando non approvando convinta quello che si è rivelato un massacro indiscriminato.

Come se tutti gli abitanti di Gaza fossero colpevoli, tutti terroristi. Nella Striscia si è fatto strame di qualunque spirito umanitario, nella Striscia è morta persino la pietà, sepolta, oltre che dalle bombe, dall’insensibilità assoluta verso i bisogni elementari di un paio di milioni di persone costrette da un anno e mezzo a campare tra le macerie di quelle che furono città, spesso spostate da un lato all’altro di quel fazzoletto di terra a seconda delle “necessità” militari, affamate per fiaccarne la resistenza con il blocco alla frontiera degli aiuti umanitari.

Nessun luogo è sicuro, nemmeno gli edifici sacri di qualsiasi religione, tantomeno gli ospedali o i campi profughi che, come tali dovrebbero godere di uno status di riguardo. La litania che ascoltiamo dall’inizio dell’offensiva dello stato ebraico è che nel mucchio di corpi dilaniati nella carneficina quotidiana ci sono anche degli uomini di Hamas.

E ciò che un tempo sarebbe suonato inudibile e inverecondo ha invece orecchie potenti disposte ad ascoltarne le motivazioni. Non solo il solito Trump, alleato di qualunque despota, ma persino il silente governo italiano, tanto per fare un esempio di casa.

L’alibi della sicurezza

L’alibi della sicurezza di Israele è il paravento dietro al quale si nasconde, ormai è chiaro, un progetto politico allucinante e foriero di una instabilità duratura di tutta l’area mediorientale.

È palese la volontà di Israele di praticare una pulizia etnica dell’intera Striscia di Gaza, con l’espulsione dei suoi abitanti verso l’Egitto o altri Paesi confinanti. Mentre anche in Cisgiordania tramonta definitivamente l’idea della nascita di uno Stato palestinese, sepolta dal cemento delle colonie che lo rendono impraticabile. Filmati fantascientifici come quello della “Trump-riviera” di Gaza assumono così una parvenza fattibile.

In questi tempi tristi in cui si è sdoganato il primato della forza, tutto è possibile, anche l’incredibile che diventa vero.

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