Detto francamente, non stupisce nessuno la fine della tregua fra Israele e Hamas, che, bene o male reggeva dal 16 gennaio scorso. I termini dell’accordo, che poi accordo non era, non affrontavano nemmeno mezzo dei punti che dividevano i due fronti.

La tregua era sempre parsa più che altro una mossa tattica in vista dell’avvicendamento alla Casa Bianca, ma era chiaro che, da un lato, Hamas avrebbe potuto continuare la cessione degli ostaggi solo fino a un certo punto, in quanto sono l’unico strumento rimasto nelle sue mani per barattare una qualche forma di sopravvivenza politica e, ci sia concesso dirlo, non solo. Avendo l’intelligence israeliana già dato prova in questi mesi di poter raggiungere i propri nemici ovunque si trovino ed in qualunque momento.

Lotta contro tutti

Dall’altro, il premier israeliano Netanyahu, impegnato a tenere insieme l’unica coalizione che lo sostenga nella sua strenua lotta contro tutti, dicasi tutti, gli altri poteri dello Stato.

Scontro aggravatosi con gli ultimi due episodi dell’elezione del nuovo Presidente della Corte Suprema Izhak Amit, mai riconosciuto dal ministro della Giustizia, nonché bibista della prima ora, Yariv Levin (cosa da guerra civile) e, notizia di queste ore, con il licenziamento del capo dello Shin Bet Ronen Bar, che pareva in procinto di rendere pubblico un documento, in cui si evidenziavano i tentativi dei servizi interni nella notte fra il 6 ed il 7 ottobre 2023 di avvisare, certo molto tardivamente come ammesso da Bar stesso innumerevoli volte, quanto si stava preparando in quel fatidico giorno in cui in Israele si celebrava la festività di Simchàt Torà, che chiude il lungo ciclo festivo di inizio anno.

Se la defezione a seguito dell’accettazione della tregua del partito Otzmà Yehudìt (Potere Ebraico), guidato da Itamar Ben Gvir rispondeva più a logiche di distinguo e posizionamento politico rispetto a HaTzionut HaDatìt (Sionismo religioso) dell’amico-rivale Bezalel Smotrich, un’uscita di quest’ultimo, che mai avrebbe potuto accettare una qualche forma di accordo che prevedesse qualcosa di diverso da una Gaza occupata, avrebbe decretato la caduta del governo e la fine di ogni scudo politico per il premier, come noto assediato dai processi, che non si sono fermati nemmeno in quest’anno e mezzo di guerra.

Dopo un primo, breve periodo, la tregua si è, così, ben presto tramutata nel consueto gioco del cerino, con cui le due parti volevano attribuire all’altra la responsabilità per una più cha annunciata ripresa delle ostilità. Ora, si è già attivato il solito copione alimentato dall’era social, per cui ciascuna delle tifoserie attribuisce all’atra la responsabilità di quanto accaduto.

La conta dei morti

Tutto sempre uguale, con i soliti toni: da un lato l’accuratissima conta dei morti da parte di Hamas, che, a seconda delle esigenze politiche del momento, si presenta come incapace di provvedere ai bisogni primari dei suoi cittadini o come organizzazione forte con kalashnikov in bella mostra; dall’altro il solito argomento dei civili usati come scudo, degli arabi disposti a scarificare i propri bambini contrapposti alla cultura occidentale che, invece, metterebbe la centro la sacralità della vita e via dicendo.

Non si contano le interviste di questi mesi in cui Netanyahu, l’uomo che ha rinnegato la dottrina di guerra israeliana da sempre orientata al salvataggio degli ostaggi costi quel che costi, se n’è uscito con la frase fatta: for us every civilian death is a tragedy, for Hamas is a strategy.

Falsificazioni, stereotipi, semplificazioni. In una parola, propaganda di guerra. Nota a margine sul trumpismo: dietro la propaganda il nulla. Nessun piano, come si sono ben accorti gli stessi russi su altri scenari, nemmeno alcuna capacità di far pressione sugli alleati, visto che questa fantomatica proposta araba sul futuro della Striscia non è mai arrivata.

Tanto, domani Trump ne separerà un’altra, poi un’altra ancora, aggiungendo caos al caos già imperante. Su chi contare? Sull’unica parte che ha margine di manovra, visto che l’altra è davvero derelitta e governata da un clan mafioso che si ammanta di insegne medievali.

Mi piace chiudere con le parole del nuovo federatole della sinistra israeliana Yair Golan: «Non bisogna permettere alla follia di vincere. La protesta deve esplodere con rabbia per salvare gli ostaggi, i soldati e lo Stato di Israele dalle mani di quest'uomo corrotto e pericoloso». E, aggiungo io, di salvare le vittime palestinesi, dalle bombe israeliane e dalla follia speculare di Hamas.

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