Nelle scorse settimane la politica estera è entrata a pieno titolo nella campagna elettorale italiana. Almeno sulla carta tutti i partiti sono stati pronti a giurare fedeltà al Patto atlantico e a condannare l’invasione della Russia in Ucraina. Ma la sfida lanciata da Pechino all’egemonia statunitense ha chiamato in causa, per la prima volta, le forze politiche anche sulla futura postura nei confronti della Repubblica popolare cinese. Il terreno di scontro è stato l’approccio nei confronti di Taiwan.

Relazioni de facto

L’episodio che ha segnato in maniera netta la campagna elettorale rispetto alla futura relazione con Pechino è stata la visita di Giorgia Meloni ad Andrea Sing-Ying Lee, Rappresentante dell’ufficio di rappresentanza di Taipei. Ossia all’ambasciatore, de facto, di Taiwan nel nostro paese.

Ogni qual volta si parla di Taiwan e delle sue relazioni internazionali il termine de facto è onnipresente, Taipei ha infatti relazioni informali con la stragrande maggioranza dei paesi occidentali, con l’esclusione di tredici alleati diplomatici più la Santa sede.

Gli uffici di rappresentanza di Taiwan sono presenti in più di cento capitali nel mondo e svolgono le tipiche funzioni consolari e diplomatiche, dall’emissione di visti ai servizi per i cittadini taiwanesi all’estero, e il personale proviene dal corpo diplomatico.

Tutti i paesi occidentali hanno uffici di rappresentanza a Taipei, ossia ambasciate de facto, ma ognuno ha assunto una denominazione alternativa, quello italiano si chiama Ufficio italiano di promozione economica commerciale e culturale (Uipecc). Si tratta di una modalità ideata negli anni Settanta, quando la Repubblica popolare cinese ha avviato relazioni diplomatiche con i paesi occidentali. Il prerequisito essenziale era il riconoscimento della sovranità di Pechino su tutto il territorio cinese, un’accettazione che implicava la rottura delle relazioni con Taipei, che formalmente reclamava la sovranità sul territorio cinese.

È stato un compromesso semantico, ideato da Washington e Pechino, per mantenere immutato lo status quo di Taiwan in attesa di futuri sviluppi. Una situazione che ha consentito agli Stati Uniti di garantire la sicurezza di Taiwan e a Pechino di mantenere aperta la possibilità di una futura unificazione, grazie proprio all’adesione di Taipei alla forzata cornice ideale della Unica Cina e soprattutto scongiurando ogni deriva indipendentistica nell’isola. Una complessa cornice di relazioni, unica al mondo, da cui tutte le cancellerie europee si sono sempre tenute ben distanti.

Si tratta di un vero e proprio terreno minato, soprattutto negli ultimi anni con l’intensificarsi della retorica di Pechino nei confronti di Taiwan. I numerosi riferimenti alla necessità di una “riunificazione” e gli eventi nello Stretto di Taiwan dell’agosto 2022 hanno messo in evidenza la determinazione di Pechino rispetto alla questione taiwanese.

L’incontro di Meloni

I leader dei partiti europei incontrano pubblicamente i rappresentanti taiwanesi molto raramente, ogni visita governativa a Taiwan suscita proteste a Pechino e gli interessi economici e commerciali nella Rpc dei diversi paesi sembrano ogni volta a rischio. L’incontro tra Andrea Lee e Giorgia Meloni ha suscitato grande interesse e ha rotto quell’equilibrio che ogni leader occidentale ha sempre rispettato fino a ora.

La scelta di quello che appariva chiaramente allora come il futuro presidente del Consiglio italiano (ora ufficialmente insediata) di incontrare il rappresentante taiwanese è stata una chiara scelta di campo. Sino a questo momento nessun premier italiano aveva mostrato un supporto così deciso nei confronti di Taipei. Un sostegno non solo legato a esigenze elettorali ma che trova la sua ragione nella componente ideologica, ossia un allineamento con Washington, sia nelle vicende europee, sia nella proiezione nell’Indo Pacifico.

La reazione di Pechino è arrivata solo dopo un ulteriore messaggio del supporto di Meloni nei confronti di Taiwan, un’intervista con la principale agenzia stampa taiwanese, la Central news agency, in cui critica l’approccio dell’Unione europea.

A Bruxelles, secondo Meloni, si è fatto troppo poco per contenere Pechino e «bisogna usare tutte le armi politiche e diplomatiche per fare più pressione possibile» sulla Cina per evitare un conflitto militare nello Stretto, arrivando a evocare addirittura una chiusura del mercato europeo alla Cina.

La risposta di Pechino stavolta non si è fatta attendere e l’ambasciata a Roma ha pubblicato una nota dicendo che «Taiwan è una parte inalienabile della Cina» e che «gli affari di Taiwan sono puramente affari interni della Cina e non saranno tollerate interferenze esterne». Dopo la vittoria elettorale Pechino ha esortato le persone rilevanti in Italia a riconoscere «l’elevata sensibilità della questione di Taiwan» con un chiaro riferimento proprio alle dichiarazioni di Meloni.

Il messaggio della nuova premier italiana ha messo in discussione il delicato equilibrio che regola le relazioni con Pechino, una sorta di compromesso che lasciava le violazioni dei diritti umani al di fuori della cornice semantica del dialogo.

La visione della sinistra

Si tratta di una dinamica inedita, l’Alleanza atlantica non è mai stata apertamente messa in discussione e l’invasione russa in Ucraina ha rafforzato questo sentimento. Ma nell’Asia orientale ogni governo italiano ha inevitabilmente sottolineato l’importanza dell’intercambio commerciale con la Repubblica popolare cinese e un conseguente disallineamento rispetto alle preoccupazioni di Washington per l’ascesa cinese.

Da sinistra la Cina è stata sempre vista come un’imperdibile opportunità, dall’interesse costante di Pietro Nenni nei confronti di Pechino sin dagli anni Cinquanta fino all’approccio dei governi di centrosinistra dell’ultimo ventennio. Mentre a destra l’impressione è stata quella di una perpetua incapacità di comprendere la dimensione dell’ascesa cinese congiunta a un disinteresse, ispirato probabilmente da una presunta superiorità culturale.

La postura di D’Alema nei confronti di Pechino è facilmente comprensibile anche dalle frequenti attività di raccordo tra la Cina e l’establishment italiano, attraverso conferenze e talvolta dichiarazioni pubbliche. L’attivismo di Ivan Scalfarotto per promuovere gli scambi commerciali con la Cina, prima come sottosegretario al Mise con la delega al Commercio estero, poi come sottosegretario agli Esteri, ha prodotto risultati notevoli. Molte regioni italiane hanno tratto notevole profitto dagli accordi bilaterali firmati con le controparti cinesi ma ogni riferimento alle questioni dei diritti civili nella Rpc veniva invariabilmente omesso.

Un esponente rilevante del passato governativo del centrosinistra come Oliviero Diliberto è diventato un vero e proprio punto di riferimento della proiezione della Repubblica popolare cinese in Italia. Mentre negli ultimi anni a destra le derive anticinesi, spesso venate di un razzismo latente, hanno determinato una contrapposizione insanabile, aggravando l’enorme distanza culturale e politica già esistente.

Equilibri globali

Nei giorni immediatamente successivi all’intervista di Giorgia Meloni alcuni commentatori avevano denunciato l’opportunismo politico della leader di FdI, i pericolosi “balzi in avanti” in politica estera e sottolineato come l’aperto sostegno a Taiwan potesse costituire un pericolo per il futuro della stessa democrazia taiwanese. Il supporto internazionale nei confronti di Taipei non ha mai generato un pericolo negli ultimi venti anni di relazioni bilaterali con i vari paesi, piuttosto l’assordante silenzio delle cancellerie europee, per evitare ripercussioni nei rapporti con Pechino, ha indebolito la posizione di Taipei.

L’unico “pericoloso salto in avanti” della politica estera italiana nella regione è stato il Memorandum d’intesa tra Italia e Cina voluto dal governo giallo-verde nel 2019; le conseguenze della credibilità internazionale dell’Italia sono state ampiamente analizzate, così come gli esigui benefici economici italiani. Negli anni seguenti la Lega ha tentato di ricostruire oltreoceano l’immagine di alleato ma la filiera produttiva del nord est è sembrata sempre più dipendente dal mercato cinese.

L’invasione russa in Ucraina ha determinato uno scarto netto negli equilibri globali mentre la postura del Partito comunista cinese appare sempre più in contrasto con l’universo valoriale dell’Unione europea e dei singoli paesi che la compongono. La Cina non rappresenta più un’opportunità ma la postura revisionista di Pechino evoca un possibile pericolo per l’ordine globale.

Molti eletti di Fratelli d’Italia hanno espresso una posizione molto chiara rispetto alla Repubblica popolare cinese, a partire dalla costante denuncia delle violazioni dei diritti umani in Cina. Il posizionamento del primo partito del centrodestra rispetto alla Rpc appare coerente, sia con l’approccio degli alleati storici, sia con le principali sfide in politica estera, crisi ucraina in primis. La posizione non è più quella della contrapposizione ideologica al termine della Guerra fredda ma la presa di coscienza di una nuova direzione della politica estera, dove l’atlantismo non è più compatibile con i disallineamenti italiani nell’Indo Pacifico.

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