Aung San Suu Kyi e la sua Lega nazionale per la democrazia (Nld) hanno riscosso una vittoria schiacciante: nonostante lo spoglio non sia ancora terminato, questo è l’esito consegnatoci dalle elezioni generali che si sono aperte in Birmania lo scorso 8 novembre, e che sono le seconde dalla fine della dittatura militare nel 2011.

Allo stato attuale, infatti, la Nld ha già ottenuto un numero di seggi talmente ampio da assicurarsi il controllo di entrambe le camere e la conseguente responsabilità di dare vita ad un governo.

Del resto, il principale partito di opposizione, l’Unione per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp), fondato dai militari, ha subìto una sconfitta ancor più umiliante di quella del 2015, mentre le molteplici compagini che miravano a catalizzare il dissenso nei confronti della Nld, create perlopiù da ex generali o da attivisti, non hanno inciso per nulla.

Le ombre del Nobel

Insomma, sembrano esserci pochi dubbi che Aung San Suu Kyi, considerata un’icona dei diritti umani e della democrazia per essersi costantemente opposta alla lunga dittatura dei militari e per questo insignita del premio Nobel per la pace nel 1991, esca dalle urne in maniera trionfale, grazie soprattutto all’immensa popolarità di cui gode tra la maggioranza dei Bamar, il principale gruppo etnico birmano di fede buddista.

Ciononostante, la realtà delle cose è profondamente diversa e queste elezioni non verranno di certo ricordate come un esempio di libertà o equità, e tanto meno di inclusività.

È bene ricordare, d’altro canto, che la Birmania non rappresenta ancora quella culla di democrazia come molti l’hanno voluta dipingere, dato che i militari detengono ancora il controllo del 25 per cento dei seggi in parlamento, sufficienti per bloccare qualunque riforma non gradita, oltre ad alcuni tra i ministeri più rappresentativi.

Covid-19 e discriminazioni

Le elezioni si sono tenute in un momento di rapida diffusione del Covid-19, anche a causa di una serie di errori nel contenimento della pandemia commessi dal governo, che hanno reso la Birmania il paese più colpito nella regione sudorientale del continente asiatico.

In una nazione che si caratterizza a livello globale per la endemica carenza di infrastrutture sanitarie pubbliche, ciò non è bastato a convincere la maggioranza a differire la chiamata alle urne, nonostante gli appelli in tal senso dell’opposizione e degli infettivologi.

La questione più rilevante, comunque, ruota attorno alla puntuale esclusione dalla consultazione elettorale, ufficialmente per questioni relative alla sicurezza, di aree del paese (il Rakhine, il Kachin, il Karen, lo Shan) in cui la maggioranza della popolazione appartiene a minoranze etniche: per questo motivo, a circa un milione e mezzo di cittadini è stato negato il diritto di recarsi alle urne.

La zona più colpita da questa scelta, assunta dalla commissione elettorale, è, ovviamente, il Rakhine, in cui è confinato il gruppo etnico dei Rohingya, di religione musulmana, catalogati dalle autorità birmane sostanzialmente come immigrati provenienti dal Bangladesh e quindi non indigeni, nonostante molti di essi siano nati o abbiano vissuto in Birmania per decenni.

Tale condizione, di fatto, ha privato i Rohingya della possibilità di esprimere le proprie preferenze politiche e di presentarsi in qualità di elettorato passivo.

I Rohingya traditi

Molti di essi, dopo il risultato elettorale del 2015, avevano sperato che Aung San Suu Kyi potesse promuovere una serie di riforme atte a migliorare le loro condizioni. Ciò non solo non è avvenuto, ma addirittura la Nld ha sostenuto le forze armate nella chirurgica pulizia etnica ai danni dei Rohingya, ottocentomila dei quali hanno dovuto rifugiarsi in una zona cuscinetto tra la Birmania e il Bangladesh, dove vivono in campi profughi in condizioni di assoluta precarietà. Su questa situazione grava l’assordante e colpevole silenzio di gran parte della comunità internazionale.

Sebbene l’esclusione delle minoranze etniche dal voto abbia attirato l’attenzione di organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e della sezione per i diritti umani delle Nazioni unite, che ha duramente redarguito il governo birmano, la scelta delle autorità è stata quella di andare avanti per la propria strada.

La scelta della commissione elettorale, che è un organismo totalmente controllato dal governo, è stata quella di concedere ai cittadini la possibilità di esprimere la propria preferenza elettorale solo in alcune zone della parte meridionale del Rakhine, imponendo preventivamente delle restrizioni all’uso della rete internet, che ha di fatto impedito alla cittadinanza di quella zona del paese di informarsi sulle modalità di voto e sulle candidature.

La censura

In aggiunta, nonostante la promessa di concedere a tutti i partiti un’equa esposizione mediatica nel corso della campagna elettorale, la commissione elettorale ha imposto una procedura che ha permesso, in pratica, al solo partito di maggioranza di rendere noto il proprio programma. I contenuti politici esposti nel corso di programmi televisivi e radiofonici dalle altre forze politiche, infatti, hanno subito un’intensa censura, in violazione a qualunque standard internazionale sulla libertà di espressione.

I giornalisti, in particolare quelli appartenenti ai gruppi etnici discriminati, del resto, non hanno potuto svolgere liberamente il proprio lavoro, nonostante il presidente della commissione elettorale, Hla Thein, avesse sottolineato il fondamentale ruolo dei media per l’affermazione di «elezioni libere, trasparenti e credibili».

Come se non bastasse, è stato imposto al più importante gruppo nazionale di monitoraggio elettorale di astenersi dallo svolgimento di qualunque tipo di attività, accusandolo di aver ricevuto assistenza da organizzazioni internazionali senza essere ufficialmente registrato.

Uno scenario divisivo

Nonostante l’esito delle elezioni non sia dissimile da quanto avvenne nel 2015, marcato da una larga rappresentanza del partito di governo sia a livello centrale sia periferico, le conseguenze potrebbero essere molto diverse.

Se la precedente consultazione elettorale rappresentava un appuntamento storico denso di speranza e unità, quelle attuali rischiano di essere significativamente divisive: Aung San Suu Kyi è riuscita, da un lato, a consolidare la sua presa sulla maggioranza Bamar buddista, alienandosi però pericolosamente la gran parte delle minoranze etniche, sconvolte dal fatto di essere considerata come “avversarie” e inorridite dalla esclusione su questioni politiche che impattano le loro vite in maniera diretta.

Il sistema elettorale birmano, in base al quale il partito che ottiene la maggioranza “prende tutto”, amplificherà senza dubbio il successo elettorale della “Lady”, ma anche il senso di marginalizzazione delle minoranze, la cui disillusione nei confronti della democrazia elettorale sarà enorme, creando potenzialmente un terreno ancora più fertile per l’opposizione violenta di alcuni gruppi in un paese la cui situazione economica, certamente non florida, è stata ulteriormente colpita, nei suoi comparti chiave come il turismo, dalla pandemia.

Rischio di violenze

Porre fine alle violenze che hanno costantemente caratterizzato varie zone della Birmania era uno degli obiettivi più significativi delle elezioni del 2015; ciononostante molto poco è stato fatto in questa direzione, soprattutto perché la maggioranza dei Bamar vive nella parte centrale del paese, poco interessata dalla protesta.

Vista l’assenza di una forte volontà politica atta a ripensare e rinvigorire il processo di pace, così come di un tavolo negoziale in cui i numerosi gruppi etnici possano trovare degna rappresentanza, il rischio dell’apertura di una nuova stagione segnata dalle difficoltà e da una inarrestabile ondata di violenza è reale.

Queste nuove elezioni offrono una nuova opportunità alla Nld e ad Aung San Suu Kyi: la speranza è che questa volta possa dimostrarsi all’altezza di un premio Nobel per la Pace.

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