«Se non avessi una patria potente, non sarei stata liberata. Buon compleanno patria mia!». Secondo i media cinesi è questo il messaggio che Meng Wanzhou, capo delle operazioni finanziarie di Huawei, ha lanciato dal volo charter che ieri sera - dopo 1.028 giorni di domiciliari in Canada in attesa di una sentenza di estradizione negli Usa - l’ha riportata da Vancouver a Shenzhen, la metropoli che ospita il quartier generale della telco cinese. Mentre le tv di stato seguivano in diretta l’atterraggio e Meng veniva acclamata sui social come un’eroina nazionale, potevano finalmente intraprende il percorso inverso, da Pechino a Ottawa, Michel Kovrig e Michael Spavor, i due cittadini canadesi arrestati dieci giorni dopo la cattura di Meng nell’aeroporto di Vancouver, il 1° dicembre 2018, su richiesta degli Stati Uniti. Al termine di un negoziato durato mesi, i governi di Pechino e Washington hanno così messo una pietra sopra a una grana che ha contribuito ad avvelenare le relazioni tra la seconda e la prima economia del pianeta.

Meng è la figlia di Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, il colosso delle telecomunicazioni messo nel mirino da Donald Trump quando la sua guerra contro la Cina per “riportare lavoro negli Usa” da commerciale è diventata anche tecnologica. Era accusata di truffa e violazione delle sanzioni Usa contro l’Iran: nel 2013, con una presentazione PowerPoint avrebbe ingannato la banca HSBC, nascondendole i legami con la Repubblica islamica. Un’imputazione per la quale - secondo il suo avvocato canadese, Scott Fenton - «mancavano le prove».

I “due Michael”

In base all’accordo raggiunto, Meng ha ammesso di aver mentito all’istituto di credito e che Huawei ha venduto tecnologia a Tehran, ma si è dichiarata non colpevole di “truffa” e “associazione a delinquere”: le accuse contro Meng saranno prima accantonate e poi cancellate (nel dicembre 2022), mentre il dipartimento di Giustizia Usa ha già ritirato la richiesta di estradizione. Il 10 dicembre 2018, Michael Kovrig (ricercatore dell’International crisis group) e Michael Spavor (un consulente con consuetudine col governo nordcoreano) erano stati arrestati con l’accusa di “spionaggio”. Pechino ha sempre negato che i cittadini canadesi fossero detenuti per esercitare pressione sul governo di Ottawa, ma la debolezza delle prove prodotte contro i “due Micheal” aveva reso evidente che era vero piuttosto il contrario e, soprattutto, che il confronto tra Cina e Stati uniti era entrato in una nuova era - senza precedenti dal riconoscimento reciproco nel 1979 - che prevedeva perfino il ricorso alla “diplomazia degli ostaggi”.

Ora bisognerà capire se quella che si è appena concretizzata è un’intesa limitata allo scambio tra Meng e i “due Michael”, o un segnale di distensione tra Cina e Stati uniti. Quello che è certo è che potrebbe favorirla. Esattamente due mesi fa il presidente Usa, Joe Biden, aveva inviato Wendy Sherman a Tianjin. Durante l’incontro col suo omologo cinese, Xie Feng, la sottosegretaria di Stato si era vista consegnare una lista di condizioni per la ripresa del dialogo tra i due governi. In cima a quell’elenco figurava proprio il ritiro della richiesta di estradizione nei confronti di Meng.

Il 9 settembre scorso Biden e Xi avevano avuto la seconda, lunga conversazione telefonica, durante la quale - secondo il comunicato della Casa Bianca - avevano affrontato «un’ampia discussione strategica sulle aree in cui i nostri interessi convergono e su quelle in cui i nostri interessi, valori e prospettive divergono». Il significato del lieto fine della vicenda di Meng e dei “due Michael” non dovrebbe essere esagerato, perché l’arresto di Meng anche a Washington è stato giudicato come uno dei tanti eccessi trumpiani, una patata bollente che l’ex presidente aveva lasciato all’amministrazione entrante, di cui Biden non vedeva l’ora di disfarsi.

Nazionalismo e geopolitica

A trarne vantaggio potrebbero essere soprattutto Xi e compagni. Infatti Pechino potrà a tornare ad avere relazioni amichevoli col Canada, che era rimasto preso tra due fuochi. Il premier Justine Trudeau è figlio di Pierre Trudeau, il cui governo riconobbe la Repubblica popolare cinese già nel 1970. I due paesi hanno un importante interscambio commerciale (60 miliardi di dollari nel 2020) e il Canada è tra gli undici paese membri dell’accordo di libero scambio Comprehensive and progressive agreement for a trans-Pacific partnership (Cptpp) al quale Pechino ha appena chiesto di essere ammessa. In secondo luogo, alla vigilia delle celebrazioni del 1° ottobre (settantaduesimo anniversario della proclamazione della Repubblica popolare cinese), Xi e compagni mettono a segno un successo sul fronte interno, in un momento in cui la leadership è alle prese con la gestione del complicatissimo puzzle Evergrande, il colosso immobiliare che con i suoi 305 miliardi di debiti rischia di assestare un duro colpo all’economia nazionale. Nelle ultime settimane la propaganda aveva trasformato Meng in un simbolo delle «ingiustizie con le quali l’occidente vuole frenare l’ascesa della Cina». I media hanno dato ampio spazio ai suoi post quotidiani, con messaggi come: «I miracoli si possono verificare, se ci credi» e «La sofferenza è alla base della grandezza».

Le immagini della manager di una compagnia strategica per lo sviluppo economico della Cina prigioniera in un paese straniero, con tanto di braccialetto elettronico alla caviglia per controllarne gli spostamenti, hanno colpito i cinesi. Un mese fa, in occasione del millesimo giorno di arresti domiciliari, 15 milioni di persone avevano firmato una lettera – scritta dal nazionalista Global Times -–per il rilascio di Meng inviata alle autorità canadesi.

Meng trova un’azienda che non è più quella che ha lasciato tre anni fa. «Ci stiamo abituando a lavorare e vivere da membri della Entity list (la lista nera, ndr) degli Stati uniti), ha dichiarato ieri il presidente di Huawei, Eric Xu Zhijun. Ma la sua divisione smartphone sta facendo registrare perdite per decine di milioni di dollari (-30 per cento nel primo semestre 2021), strozzata dal divieto della vendita alla Cina dei microchip “made in Usa”. Quest’anno Huawei produrrà il 60 per cento di smartphone in meno rispetto al 2020. «Ci vorrà molto tempo per compensare perdite di 30-40 miliardi di dollari applicando la nostra tecnologia 5G a diversi settori industriali» ha concluso Xu.

© Riproduzione riservata