Le linee di frattura sembrano le stesse del voto sulla Brexit e della vittoria di Donald Trump nel 2016: le metropoli votano diversamente dalle zone rurali, i giovani in modo differente dagli anziani; le grandi città scelgono l’Europa e i valori democratico-liberali. Ma in queste elezioni presidenziali polacche è la direzione della spinta che cambia: non è un trionfo inarrestabile di populisti e sovranisti, ma il segnale di una inversione in senso liberale. Ecco perché queste elezioni in Polonia sono importanti per l’Europa, anche se formalmente chi detiene il potere non cambia.

Il potere rimarrà fino al 2023, data delle prossime elezioni parlamentari, nelle mani del Pis (Prawo i Sprawiedliwość, Diritto e giustizia). Il Pis è il partito conservatore e nazionalista fondato quasi vent’anni fa dai gemelli Lech e Jarosław Kaczyński e guidato ora da Jarosław (unico sopravvissuto dei due), che è il teorico, assieme al premier ungherese Viktor Orbán, di una “controrivoluzione culturale” conservatrice.

Andrej Duda esidente uscente e candidato appoggiato dal Pis, conquista un secondo mandato; ma il margine sull’avversario, il sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski, è esiguo: Duda incassa il 51,2 per cento ed è quindi poco distante dal 48,8 per cento del contendente di Po (Platforma Obywatelskay, Piattaforma civica), il partito di centrodestra liberale ed europeista fondato nel 2001, tra gli altri, da Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo e attualmente a capo del Partito popolare europeo (Ppe).

Il ballottaggio che si è svolto ieri ha portato alle urne quasi il 70 per cento degli aventi diritto: una mobilitazione come se ne sono viste poche, nel paese, dal crollo del regime comunista; una partecipazione che è “segno di una società civile vibrante”, ha detto Trzaskowski.

Il potere del Pis, il partito che per Bruxelles rappresenta un punto dolente viste le infrazioni allo stato di diritto (“rule of law”) e l’invadenza del potere esecutivo su quello giudiziario, è sembrato per un attimo diventare contendibile. Il ruolo di presidente in Polonia non è solo simbolico: chi lo ricopre ha ad esempio potere di veto, può respingere al mittente una legge e per superare il suo freno servono al parlamento i due terzi dei voti (anche se basta che sia presente la metà dei membri); al momento il Pis ha la maggioranza solo in una delle due camere (quella bassa, detta Sejm).

Cosa cambia (e non cambia) per l’Europa. Entrambi gli sfidanti hanno un passato come europarlamentari, e tutti e due - anche se con sfumature diverse - fanno riferimento a famiglie della destra europea (il Pis afferisce ai conservatori, il Po ai popolari che sono più centristi, ma nel Ppe siede ancora Fidesz, la formazione del premier ungherese Viktor Orbán). Una delle faglie su cui si è giocata l’elezione è proprio l’Europa: nazionalista Duda, europeista Trzaskowski.

Il Pis ha fatto dell’idea di patria (e di famiglia) un leit motiv, inoltre Duda ha ostentato in campagna elettorale la vicinanza con Donald Trump. Invece il sindaco di Varsavia - che ha rimarcato la opposizione tra società aperta (la sua) e chiusa (di Duda) - ha rappresentato una possibilità di cambiamento in direzione europeista per l'elettorato giovane e liberale (i primi exit poll dicono che Trzaskowski conquista gli under 30 mentre Duda gli over 60) che si concentra nelle grandi città.

Lo stato di diritto. Finora le ammonizioni dell’Ue a Polonia e in Ungheria si sono arenate anche perché per portare avanti l’iter (il cosiddetto articolo 7, che sanziona la violazione dei valori comuni con strumenti come la sospensione dei diritti politici per il paese disobbediente) è necessaria l’unanimità fra gli stati membri. I due paesi sotto accusa, che fanno fronte comune nel “gruppo di Visegrád”, si sono spalleggiati a vicenda. A ciò si aggiunga che sia il Pis sia Fidesz possono rivendicare di aver appoggiato con i loro voti l’elezione di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione.

“La scelta del nuovo presidente ha un impatto forte per lo stato di diritto”, dice il giurista Alberto Alemanno, che insegna all’École des hautes études commerciales (Hec) di Parigi. “La Polonia del Pis finora ha fatto blocco comune proteggendo il premier ungherese Viktor Orbán e a sua volta si è resa colpevole di violazioni constatate dalla Corte di giustizia europea; se fosse stato eletto il sindaco, sarebbe stato possibile arginare le riforme polacche che hanno messo fine all’indipendenza del potere giudiziario, ormai dipendente dall’esecutivo”, dice Alemanno.

Una deriva in stile ungherese? La conferma di Duda - e quindi del potere vigente - toglie respiro all’ipotesi. Lascia anzi pensare ad alcuni - come il professor Stefano Bottoni, autore di “Orbán. Un despota in Europa” (Salerno editrice) - che la Polonia potrebbe “orbanizzarsi” sempre più: “Con queste elezioni la linea del premier ungherese in Europa esce rafforzata, Tusk indebolito”, per non parlare del fatto che “ora il Pis può radicarsi ancora di più nella società polacca, imitando le derive illiberali dell’amico Orbán”, dice Bottoni.

Judith Sargentini, protagonista della vita politica europea, mai tenera con Duda né tantomeno con Orbán, al telefono suona speranzosa: vede nel margine molto stretto di vittoria uno spazio di manovra per l’Europa. Lei è la fautrice della procedura contro l’Ungheria (da europarlamentare dei Verdi nel 2018, fu la “grande accusatrice” del premier ungherese, e diede il nome al rapporto che denunciava l’attacco alle libertà e alla democrazia ungherese). “Il fatto che Duda abbia vinto con una maggioranza così risicata, nonostante l’aggressività della sua campagna elettorale, lo rende un presidente sì, ma debole”, dice. “In politica non conta solo vincere, conta anche la base di legittimità politica, conta come la gente percepisce la vittoria; ora i cittadini che vorrebbero un cambiamento si sentono rinvigoriti: sanno che c’è qualche possibilità”.

Questo non sbloccherà a Bruxelles la procedura per il rispetto dello stato di diritto. Spiega Sargentini: “Perché ciò avvenga serve anzitutto una volontà del Partito popolare europeo di risolvere le sue contraddizioni interne; ma va detto che la politica procede per piccoli passi, e il voto di ieri può contribuire a far cambiare le volontà politiche in Polonia e in Europa”.

Cosa cambia (e non cambia) per la Polonia. Il tentativo del Pis di votare a maggio in piena pandemia, sventato solo dopo lunghe schermaglie politiche e istituzionali, suggerisce che la gestione del Covid-19 rappresenta un elemento critico per i populisti di governo. Finora la Polonia ha avuto un lungo trend di crescita economica, resistendo persino alla crisi finanziaria del 2008 (nel 2009 era l’unico paese europeo a crescere nonostante tutto, con oltre il +1 per cento) e nutrendo la sua economia con fondi europei dei quali è stata finora il maggior beneficiario.

Il Pis intanto ha radicato il proprio potere nei villaggi, nelle campagne, con un mix di nazionalismo cattolico, welfare e sussidi (il “bonus bambini” dà 112 euro per ogni figlio in un paese in cui guadagnarne seicento al mese è ritenuto la norma).

Nel frattempo, il paesaggio politico si è trasformato: il Partito contadino si è eclissato, la sinistra quasi non esiste più (al primo turno Robert Biedroń ha preso il 2 per cento). “L’ha logorata stare al potere per cinquant’anni”, risponde la professoressa di storia dell’Europa orientale Carla Tonini, emerito dell’università di Bologna. “Anche la socialdemocrazia che negli anni Novanta aveva ottenuto risultati ora è praticamente inesistente. E se la sinistra in Polonia è morta, allo stesso tempo il linguaggio politico è degenerato, il Pis è diventato un partito estremista in tutti i campi”.

Questo estremismo lo si è visto dal modo in cui Duda ha condotto la sua battaglia di retroguardia contro la comunità lgbt. “Non ci siamo liberati dell’ideologia comunista per poi arrenderci a un’altra ideologia ben più distruttiva, l’ideologia lgbt” tuonava lui durante i comizi nei piccoli villaggi, fortemente cattolici.

Beata Klimkiewicz, la ricercatrice che sul fronte polacco elabora i dati del Center for media pluralism and freedom europeo, dice che anche sul piano mediatico “negli ultimi anni abbiamo assistito a una profonda polarizzazione, e anche questa campagna elettorale lo mostra bene: i due candidati, tanto per dirne una, hanno rifiutato di dibattere insieme, nella stessa tv”.

La novità però c’è: la politica aggressiva, estremista e di “chiusura” del Pis stanca alcuni, tanto che anche tra i cattolici c’è chi chiede più moderazione; anche così si spiega il 14 per cento incassato al primo turno da Szymon Holownia, candidato indipendente di area cattolica. Il vincitore morale (anche se non effettivo) Trzaskowski è inoltre espressione di una ondata liberale, più aperta alla società civile, e che non è un unicum: di Piattaforma civica era pure il primo cittadino di Danzica, Pawel Adamowicz, sindaco dell’accoglienza che voleva mutuare dalla Barcellona di Ada Colau l’idea di “città rifugio” per i migranti, così come di Piattaforma è il suo amico sindaco di Poznań, Jacek Jaśkowiak, la cui città ha avuto un’affluenza al 75 per cento e che sfoggia in questi giorni magliette arcobaleno. La sfida ora è trasformare l’ondata di entusiasmo e di civismo in una alternativa reale allo strapotere del Pis.

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