Il mondo delle news è in subbuglio. In America tengono banco in campagna elettorale le manipolazioni dell’intelligenza artificiale, l’influenza massiccia dei social, le guerre di disinformazione. I grandi media sono spiazzati da una realtà informativa ultra frammentata.

Chi ancora segue le notizie si rivolge a siti anti establishment al di fuori delle tradizionali testate o a piattaforme piccole ma indipendenti. L’informazione mainstream – un tempo “cane da guardia” della politica e massima fonte del discorso pubblico – lotta per rimanere a galla.

Giganti in crisi

Cnn, L’ammiraglia delle cable tv è un caso simbolo. Spaventato dal calo di telespettatori, il nuovo ceo Mark Thompson ha preso di petto la crisi e in un memo ai dipendenti ha ammesso: siamo iconici ma giurassici. «Dobbiamo organizzarci attorno al futuro e non al passato. Dobbiamo riconquistare la spavalderia e l’innovazione della prima Cnn. Per molte persone oggi lo smartphone è un dispositivo più importante della tv. Per loro, le news da vedere sono al mattino, non in prima serata». Già, gli under 40 seguono la Cnn su YouTube e TikTok senza collegarsi allo schermo tv né al sito web.

Eppure, nei media non mancano segni di vitalità. Premia la scelta di nicchia. A differenza delle startup degli anni Duemila, oggi servono meno soldi, soprattutto da private equity o family office. Puck, vivace realtà che copre l’intersezione tra Hollywood, Silicon Valley, Wall Street e Washington, ha ricevuto un finanziamento di 10 milioni di dollari da investitori privati. Aspirando a un’audience globale, Semafor ha raccolto 34 milioni. Da seguire poi è Air Mail. Fondata dall’ex direttore (per 25 anni) di Vanity Fair Graydon Carter, trascina online il contenuto (e la pubblicità) dei prodotti di lusso delle riviste patinate. Carter ha già svoltato: sta trattando l’ingresso in AirMail (per 50 milioni) di Standard Industries, piccolo impero industriale e finanziario.

Deprimente invece è lo scenario nel comparto dell’informazione tv. L’ascesa dello streaming e il calo dei telespettatori hanno costretto i grandi network a stringere la cinghia. Disney, proprietaria di Abc News, ha tagliato migliaia di posti di lavoro. Nbc Universal è impegnata a cacciare dozzine di dipendenti. Varie ondate di licenziamenti anche a Cnn, del gruppo Warner Discovery, carico di debiti. Paramount, a cui fa capo Cbs News, ha in programma pesanti tagli.

Se la televisione va male, l’informazione dell’editoria quotidiana va peggio. Un esempio per tutti, Patrick Soon-Shiong, chirurgo di trapianti, miliardario del biotech, ha investito centinaia di milioni nel Los Angeles Times, storica testata californiana e tra le prime per circolazione. Ma perde oltre 40 milioni l’anno, così negli ultimi mesi sono partiti 185 licenziamenti, un quarto della forza lavoro. Nemmeno proprietari miliardari riescono a mandare in pareggio i conti dei giornali. Gli ultimi mesi, un’ecatombe.

A Time Magazine, del tycoon high-tech Marc Benioff, il 15 per cento dei giornalisti è stato licenziato. Il Washington Post, con un rosso in bilancio di 100 milioni l’anno (è del fondatore di Amazon Jeff Bezos) manderà via 240 dipendenti. Business Insider e Npr hanno tagliato il 10 per cento del personale; BuzzFeed è stato chiuso; News Corp di Rupert Murdoch ha eliminato 1.250 persone; Vice Media è fallita; tagli massicci anche al National Geographic, Espn, Condé Nast, Yahoo News, Wired, Sports Illustrated. In totale 2.681 posti di lavoro persi l’anno scorso, secondo un rapporto di Challenger, Gray e Christmas. Numero che include tv, digitale e giornali cartacei.

Il buco nero ha varie cause. Fenomeno riscontrabile anche in Europa e in Italia, gli americani soffrono di “stanchezza” per l’eccesso di notizie, inondati da storie importanti come la corsa alla Casa Bianca o le guerre tra Israele e Hamas a Gaza e Russia-Nato in Ucraina. C’è poi un problema tecnico.

Piattaforme come Instagram e Google sono meno affidabili nell’indirizzare i lettori ai giornali tradizionali. Twitter, ora X, ha perso milioni di utenti e il 70 per cento del valore dopo la caotica acquisizione di Elon Musk. Meta (holding di Facebook) ha licenziato dipendenti nel comparto news. L’era della monetizzazione tramite pubblicità del traffico web è finita. E i grandi media non riescono a compensare i costi di strutture redazionali mastodontiche (spesso 500 persone, senza contare gli spazi per uffici rimasti mezzi vuoti nel dopo pandemia).

Eccezione NYT

Pochi hanno bilanci floridi. Grazie a un’accorta espansione nel digitale nel gruppo dei vincenti spiccano il New York Times, il New Yorker e il Boston Globe.

La medaglia d’oro spetta al Times. Nel quarto trimestre 2023 ha aggiunto 300mila abbonati digitali con cui ha superato per la prima volta il miliardo di dollari di fatturato. Vanta oggi 10,36 milioni di abbonati, 9,7 milioni dei quali digitali, con l’obiettivo dichiarato di 15 milioni entro il 2027 (al giornale cartaceo gli abbonamenti continuano a calare). È un bastione digitale che viene però gestito con il vecchio approccio generalista.

La presidente e ceo Meredith Kopit Levien punta ora su nuovi prodotti come i giochi Wordle e Spelling Bee, il sito di recensioni Wirecutter, un’app per le ricette e The Athletic, un sito di sport molto seguito.

Una strategia opposta a quella del NYT è perseguita dalla Dow Jones, gruppo di Rupert Murdoch proprietario del Wall Street Journal, Barron’s, MarketWatch e Investor’s Business Daily: «Non saremo mai un’azienda lifestyle», conferma il ceo e direttore editoriale del Wsj, Almar Latour.

Dow Jones ha raddoppiato la sua base di abbonamenti digitali a 4,86 milioni a fine novembre 2023 puntando a un target di professionisti e aziende. «Abbiamo le idee chiare», conferma Latour. «Non ci occupiamo di giochi. Non offriamo ricette di cucina. Ci concentreremo su come possiamo aiutare le persone a prendere decisioni». Strategia giusta, ma battaglia dura, mentre lì fuori imperversano social fuori controllo, deep fake e ChatGpt.

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