Tra gli aspetti che gli Stati Uniti e più in generale le forze occidentali coinvolte in Afghanistan non hanno colto e considerato per prevenire, o quanto meno prevedere, una caduta così rapida di Kabul, ci sono i negoziati in corso da anni tra i Talebani e le forze afghane.

Ne abbiamo parlato con Anatol Lieven, ricercatore e analista presso il Quincy Institute for responsible Statecraft di Washington, un think tank finanziato tra gli altri da George Soros e Charles Koch, nato con l’obiettivo di ripensare alla politica estera americana nell’ottica di limitare al minimo gli interventi militari e di porre fine alle “forever wars”, le guerre senza fine.

Lieven è nato a Londra una sessantina di anni fa. Ha lavorato come giornalista in Asia meridionale dal 1985 al 1998, occupandosi in particolare di Afghanistan, Cecenia e Caucaso. È professore universitario e autore di diversi libri.

In un articolo pubblicato di recente su Politico, lei parla della complessa rete di relazioni tra le forze opposte in Afghanistan. In particolare introduce l’idea di una permanent conversation, una conversazione permanente, tra le parti. Può parlarcene?

La società afghana è fondata sulle relazioni familiari. Questo significa che persone su fronti opposti a livello politico e addirittura militare possono avere parenti che si parlano tra loro. Ci sono spazi e tempi neutri – matrimoni, funerali, circoncisioni – in cui si incontrano persino comandati di fazioni diverse. C’è un’antica regola che proibisce scontri in questo tipo di situazioni, che così divengono anche occasione per discutere di affari, ma anche per negoziare e scambiare prigionieri. Non voglio dirlo in senso peggiorativo, ma ad esempio chiunque abbia visto un film sulla mafia o abbia letto libri a proposito, sa che ci possono essere episodi di violenza estrema, ma che poi quelle stesse persone che si sono uccise tra loro possono poi fare la pace, e diventare alleati. Si stringono la mano e si baciano per le strade per fare vedere che hanno stretto un accordo. Probabilmente si odiano, ma sono alleati. È una questione di affari, di interessi. 

Si è parlato molto dell’alto livello di corruzione tra i vertici delle forze afghane, ma ci sono anche altri elementi che lei evidenzia per comprendere le dinamiche di questa resa. Si tratta di regole non scritte ma radicate nella società afghana. Può parlarcene?

Questa guerra è stata combattuta secondo regole non facili da comprendere per noi oggi, più simili a quelle che venivano adottate nel medioevo. Il modo in cui i Talebani hanno condotto i loro combattimenti, anche negli anni Novanta, prevede che nel caso in cui gli avversari si arrendano al primo avvertimento, possano tornare a casa con le loro armi. A volte soldati e comandanti sono invece stati invitati a unirsi ai Talebani. Per quello che ne so, i Talebani rispettano questo tipo di accordi, per una questione di tradizione, e questo è certamente un elemento importante da ricordare per comprendere come sia stata possibile una resa così rapida. D’altra parte in certi casi ai Talebani era chiaro che i comandanti di certe unità non si sarebbero arresi e in quel caso sono stati pronti ad uccidere. È quello che è successo un paio di anni fa, quando a Kandahar è stato ucciso il generale Abdul Raziq, a capo delle forze ai confini con il Pakistan. Poche settimane fa i Talebani hanno fatto prigioniere centinaia di persone in quell’area, tutte accusate di aver collaborato con lui. Raziq, alleato degli Stati Uniti, a sua volta è stato accusato di torture e di altre violazioni dei diritti umani nei confronti dei Talebani. In generale c’è stata una scarsa comprensione da parte degli Stati Uniti delle dinamiche interne alla società afghana. Ho letto tanti report redatti da americani e dicevano che il numero di persone che volontariamente si sono unite all’esercito dimostra come la popolazione sia pronta a combattere per la democrazia. Ovviamente non è così. Molti erano innanzitutto disposti a combattere per avere un salario, oppure si trattava di scelte legate ad interessi familiari. In diverse famiglie mentre uno dei figli combatteva con le milizie talebane, un altro si arruolava nell’esercito afghano, così da garantire una certa protezione in qualunque caso. 

Senza entrare nel merito se questa guerra in sé sia stata un grave errore, pensa che una volta in campo la colpa principale degli Stati Uniti sia stata quella di non comprendere o non voler vedere le dinamiche interne alla società afghana? Guardando agli eventi di questi ultimi giorni, cosa avrebbe potuto fare Biden di diverso?

Il modo in cui gli americani hanno gestito questa guerra a partire da Bush fino a Biden è stato segnato da una sequenza di errori concatenati. Anche Obama ha commesso un errore madornale quando da una parte ha ceduto alle pressioni del corpo militare e ha deciso di continuare l’occupazione per un altro certo numero di anni, dall’altra ha fissato delle scadenze. In un certo senso è come se ai Talebani fosse stato detto di attendere. Con Trump è stato poi chiaro che questa guerra non sarebbe andata da nessuna parte e così ha annunciato il ritiro. Biden è rimasto sulla stessa linea, che è poi quella che aveva già quando era vice di Obama e per la quale si era scontrato con i vertici militari. Non c’era modo di portare a termine il ritiro senza conseguenze: le avevano previste tutti, solo non in tempi così rapidi. L’errore più clamoroso di Biden è stato quello di fissare l’11 settembre come data entro la quale terminare le operazioni. Capisco che avesse un forte significato simbolico, ma a livello strategico si è rivelata disastrosa. Biden non avrebbe dovuto stabilire un termine preciso, ma organizzare il ritiro in modo più graduale, magari in inverno quando in Afghanistan il clima è molto rigido e la neve sarebbe stata un ostacolo per i Talebani nel condurre operazioni militari decisive. L’esito non sarebbe cambiato, ma almeno si sarebbe potuto creare un ragionevole intervallo di tempo tra il ritiro delle truppe americane e la presa del controllo dei Talebani. All’occidente sarebbe stata risparmiata in parte questa umiliazione. 

Non pensa che il fatto che Biden abbia voluto insistere su questa data sia stato un modo per ribadire il concetto che la guerra in Afghanistan fosse parte della war on terror e non avesse l'ambizione di creare uno stato democratico sul modello occidentale?

Certamente, e da questo punto di vista il messaggio di Biden è giusto. In Afghanistan le elezioni parlamentari sono state sospese per anni, le ultime elezioni presidenziali sono state una farsa, una minima parte della popolazione ha votato e non voleva accettare il risultato. Ghani è rimasto al potere solo perché gli afghani non sapevano come liberarsi di lui e l’America lo sosteneva. Biden ha ragione quando sostiene che non c’era speranza di creare una democrazia e prende le distanze da quell’obiettivo. Ma avrebbe potuto risparmiare agli Stati uniti, e a sé stesso, una simile umiliazione prendendosi almeno qualche mese in più.

Come pensa che possa cambiare l’equilibrio geopolitico della regione?

Fino a dieci anni fa gli americani speravano che l’Afghanistan diventasse una loro base permanente in questa regione, ma è chiaro già da tempo che si tratta di una cosa impossibile. La domanda chiave è come si comporteranno i Talebani di fronte alla possibilità di sostenere gruppi terroristici. La mia opinione è che non lo faranno. Hanno promesso a tutti – ai cinesi, ai russi, ai pachistani...e anche agli americani – che non l’avrebbero fatto. Se lo facessero verrebbero isolati anche a livello economico e questo sarebbe disastroso. I cinesi immagino abbiano invece interessi ad investire perché in Afghanistan potrebbero estrarre il rame di cui hanno bisogno. In generale, da un punto di vista politico, non credo che nessuno sia interessato a mettersi in mezzo, o tantomeno a prendere il controllo dell'Afghanistan. Tempo fa, molto tempo prima che si potesse prevedere un simile collasso del regime afghano, parlando con un generale indiano gli chiesi se immaginava che l’India avrebbe potuto prendere il posto degli Stati Uniti in Afghanistan. Lui mi rispose che non c’era bisogno di essere un genio in storia per sapere che per una forza straniera non è conveniente essere coinvolta in Afghanistan. La storia ci insegna che non può andare bene. 

E per quanto riguarda la Russia? 

La Russia ha imparato la lezione e vuole solo due cose dai Talebani. La prima è che non sostengano i ceceni e più in generale militanti islamici contro la Russia. La seconda è che interrompano il commercio di eroina verso la Russia. Quest’ultima richiesta è la più difficile da realizzare per ovvie ragioni economiche, ma Mosca farà pressione sulla Cina affinché inietti denaro nel paese. 

Avendo trascorso lunghi periodi in Afghanistan negli ultimi trent’anni, come si sente in questi giorni? 

Sono estremamente triste. Sono triste per i soldati occidentali, per tutti coloro che sono feriti e per le famiglie di coloro che sono morti. E sono profondamente dispiaciuto per le donne afghane, soprattutto per quelle che hanno studiato con grandi speranze che ora vedono svanire. Ma pensando più in generale all'Afghanistan, non posso che riconoscere che anche la classe politica che era stata messa al governo e che si reggeva grazie alle forze di occupazione occidentale era completamente marcia, non meritava di guidare un paese e non sarebbe riuscita a farlo. Il fatto è che era chiaro già dieci anni fa che non sarebbe andata bene.

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