Quattro anni fa, la notte dell’8 novembre 2016, andavo in taxi verso il grattacielo dell’Associated Press per commentare in collegamento con la tv italiana i risultati delle presidenziali americane. I seggi erano stati chiusi da poco sulla costa orientale e il sito del New York Times dava ancora la vittoria di Hillary Clinton all’85 percento di probabilità. Ma quella notte, sulla terrazza al trentottesimo piano dove era stato allestito lo studio televisivo, le cose andarono molto diversamente da come le avevo immaginate.

Presi posto in studio. Alle mie spalle l’Empire State Building risplendeva dei colori della bandiera, un flebile segnale di unità in un paese profondamente diviso. Mentre eravamo in attesa dei primi risultati, il corrispondete mi chiese di spiegare chi fossero gli elettori di Trump.

Dissi allora che erano bianchi, non più giovani, religiosi, spesso senza un diploma universitario, appartenenti alla classe media e a quella operaia, residenti nei sobborghi, nelle zone rurali e in quelle industriali che erano state duramente colpite dalla globalizzazione. «Nei prossimi decenni», spiegai, «i bianchi non saranno più maggioranza nel paese ma la più grande delle minoranze. Perdendo peso demografico perderanno anche peso politico. Trump capitalizza sulle loro paure».

Da Roma, un politico che era ospite in studio mi accusò senza troppi giri di parole di fare propaganda. «Che vuol dire capitalizza?» chiese seccato, «dispiace constatare che anche da quella parte dell’Atlantico si faccia propaganda». Pensai allora che le mie parole avessero toccato un nervo scoperto. L’onorevole si sentiva in qualche modo chiamato in causa. Dopotutto gli Stati Uniti non sono l’unico paese dove si capitalizza sulle paure dei cittadini.

«Durante la campagna elettorale», continuai, «Trump ha abilmente identificato dei nemici: gli ispanici, criminali e stupratori, i musulmani tutti terroristi, e gli afroamericani che uccidono i poliziotti e rendono insicure le nostre città. Il nemico crea unità. Definisce l’identità di chi non si sente rappresentato».

In quell’anno elettorale, Trump si era presentato come il paladino dell’America bianca, cristiana, eterosessuale, cisgender ed extra urbana. Il paladino di un popolo in rivolta contro le élite finanziarie, culturali e scientifiche. L’America di chi era stato affamato da Wall Street durante la crisi del 2008 e dimenticato da Washington durante gli anni della presidenza Obama.

L’inizio di un’èra

Al politico che mi accusava di fare propaganda non ebbi tempo di dire molto altro. Proprio in quel momento arrivarono i primi risultati della Pennsylvania e subito dopo quelli della North Carolina, della Florida e dell’Ohio. Sulla mappa degli Stati Uniti cominciò a srotolarsi un enorme tappeto rosso, il colore dei repubblicani.

Più tardi iniziò lo spoglio delle schede nella regione dei laghi e fu proprio a quel punto che accadde l’inimmaginabile. Trump aveva sfondato il muro dei blue states vincendo anche in Michigan e Wisconsin, e perdendo per un soffio in Minnesota. Fu così che iniziò l’èra Trump.

Quattro anni più tardi – e dopo un bando contro i musulmani, la costruzione (ancora agli inizi) di un muro al confine, la separazione dei figli dai genitori illegali, l’uscita dagli accordi sul clima e da quelli sul nucleare, la sconfitta dell’Isis, la guerra commerciale con la Cina e le prove di pace con la Corea del Nord – l’America torna al voto e io di nuovo a commentare le elezioni. I Democratici sono avanti nei sondaggi, esattamente come quattro anni fa. Ma a parte questo, è un altro mondo quello in cui viviamo oggi ed è un’altra me quella che siederà nello studio televisivo di Washington la notte del 3 novembre.

Un altro mondo

Sono passati solo quattro anni ma sembra un’altra èra geologica. 227mila morti, più di 80mila positivi al giorno, otto milioni e mezzo di contagiati e indici in crescita in 40 stati su 50. Questo doveva essere l’anno della rielezione di Trump. A fine gennaio il presidente aveva brillantemente superato la prova dell’impeachment, l’economia doveva crescere al 3 per cento e c’era un regime di piena occupazione.

Trump aveva già eletto due giudici conservatori alla Corte suprema, cancellato in parte la riforma sanitaria di Obama, ucciso il califfo al-Baghdadi e il generale iraniano Soleimani, spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme, rinsaldato i rapporti con i paesi arabi. Quale elettore repubblicano poteva desiderare di più? Il presidente si preparava a un altro trionfo elettorale a novembre. Nel frattempo, l’America era tornata di nuovo grande? Il deficit commerciale con la Cina era sparito? L’industria manifatturiera risorta? L’immigrazione sotto controllo? Il paese era più unito e più giusto?

Dopo l’elezione di Trump, i miei studenti ispanici furono aggrediti in metropolitana, le mie amiche musulmane insultate per strada, svastiche apparvero un po’ ovunque sui muri della mia città. Altrove furono bruciate moschee e assaltate sinagoghe. I neri continuarono a morire. Make America Great Again. Ma questa America non è di nuovo grande. Oggi torniamo al voto più divisi di prima. Stati rossi contro stati blu. Città contro campagne. Laureati contro non laureati. Vecchi contro giovani. Religiosi contro atei. Cisgender contro transgender. Maschi contro femmine. E in tutto questo il virus si diffonde senza controllo.

Mancano pochi giorni al 3 novembre. Ascolto Democracy di Leonard Cohen mentre alle sei del mattino mi reco al seggio per votare. Per la prima volta la città di New York ha deciso di permettere agli elettori di votare in anticipo così da evitare assembramenti. Ingenuamente penso di trovare poca gente, in fondo fuori è ancora notte.

Ma la fila per entrare nella scuola del mio quartiere fa due volte e mezzo il giro dell’isolato. Ci sono centinaia di persone prima di me. La signora a cui chiedo informazioni ha portato uno sgabello da casa. «Ieri la coda era di quattro ore», mi dice sorseggiando il caffè nel thermos, «per questo oggi sono venuta preparata». Cercando di capire dove finisce la fila mi imbatto nel figlio dei miei vicini di casa. «La gente è stanca, c’è voglia di cambiamento», mi dice Ryan che oggi vota per la prima volta. «Ma New York vota sempre per i democratici», gli faccio notare, «non ci sono in ballo i grandi elettori come in altri stati». Ryan sorride. «È il segnale che conta» mi dice aprendo l’ombrello «non possiamo rimanere a guardare». Intanto albeggia dietro le nuvole. Democracy is coming to the Usa, canta Cohen nelle cuffie.

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