L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è avvenuta solo poche settimane dopo un altro intervento militare che ha visto coinvolte anche truppe russe. A inizio gennaio, infatti, il Kazakistan – gigante geografico ed economico dell’Asia centrale – è scivolato nel caos a causa di partecipatissime proteste di piazza e una lotta interna alla nomenklatura.

Al culmine della mobilitazione, il presidente del paese, Qasym-Jomart Tokayev, ha invocato l’intervento delle truppe della Csto – organizzazione di sicurezza a guida russa – per stabilizzare la sua traballante poltrona al vertice del regime kazaco. Missione portata a termine senza particolari patemi dalla forza di sicurezza congiunta.

A quel punto è stato logico prevedere che Vladimir Putin avrebbe avuto un credito politico di un certo peso da mettere sul tavolo dell’alleato di ferro kazaco al momento opportuno. E quale frangente più opportuno di quello attuale, con la Russia sempre più isolata? In realtà, la reazione del Kazakistan alla guerra in Ucraina è stata particolarmente cauta.

Il ministro degli Esteri del paese si è affrettato a dichiarare di non considerare l’ipotesi di riconoscere le repubbliche di Donetsk e Lugansk e, in seguito, le autorità kazache hanno consentito lo svolgimento di proteste contro il conflitto.

Mossa dal profondo valore simbolico considerando la repressione a cui tradizionalmente sono soggette le mobilitazioni di piazza in Kazakistan. Col passare dei giorni è infine diventato sempre più evidente il posizionamento neutrale della repubblica centroasiatica – per quanto non esplicitato a chiare lettere – ribadito anche con l’invio di aiuti umanitari in Ucraina.

Paura per il futuro

A pesare su questo atteggiamento vi è soprattutto un timore molto concreto: essere il prossimo nome sulla lista. La parte settentrionale dell’immenso territorio kazaco si caratterizza per un’ingente presenza di russo-etnici, retaggio del passato zarista e sovietico. Basti pensare che nella capitale regionale, Petropavl, il 60 per cento della popolazione è di etnia russa.

Come se ciò non bastasse, nel corso degli ultimi anni vari politici russi di primo piano, tra cui lo stesso Putin, hanno messo in campo una retorica profondamente nazionalista riferendosi al nord del Kazakistan.

Questa paura per il futuro è stata però presto messa in secondo piano dall’onda d’urto economica legata alle sanzioni contro la Russia: oltre a essere fragili, le economie dell’Asia centrale sono profondamente connesse a quella della Federazione e l’impatto è stato traumatico.

Ad esempio, il crollo del rublo si è immediatamente tradotto in una parallela discesa del tenge, la valuta kazaca. La banca centrale nazionale ha provato a sostenere la moneta a suon di iniezioni di liquidità, con risultati però molto parziali.

Paesi pro-Russia

Lo scenario è ancora più allarmante se si guarda verso altri angoli della regione: il Tagikistan e il Kirghizistan sono tra i paesi al mondo più dipendenti dalle rimesse e milioni di lavoratori migranti ogni anno si spostano in Russia in cerca di fortuna.

Bene, a fronte della previsione di una debole crescita di questo flusso di denaro nel post-Covid, la Banca mondiale prevede ora crolli a due cifre delle rimesse dirette verso l’Asia centrale. E il denaro che sarà inviato subirà comunque una pesante svalutazione rispetto al passato, con un parallelo boom dei prezzi dei beni di prima necessità.

Un vero e proprio disastro, che rischia di destabilizzare i regimi regionali. La più classica delle eterogenesi dei fini per Putin, che potrebbe subire pesanti contraccolpi nel proprio cortile di casa.

La dipendenza dal favore del Cremlino verso i propri cittadini che risiedono in Russia ha però spinto le autorità kirghise a mettersi immediatamente in prima fila nel supporto all’intervento armato in Ucraina, una posizione che nel corso delle settimane si è poi ammorbidita.

Lo stesso dicasi, seppur in modo meno netto, per il Tagikistan, con il leader in pectore, il figlio del dittatore locale Emomalī Rahmon, che il giorno dopo l’invasione ha incontrato una delle fedelissime di Putin, la presidentessa del Consiglio della Federazione russa Valentina Matvienko.

Silenzio in Turkmenistan

Tutto tace invece sul fronte del Turkmenistan, gigante energetico e campione di isolazionismo a livello mondiale, dove a metà marzo si è oltretutto registrato un avvicendamento al vertice. I quindici anni di follia dittatoriale del dimissionario Gurbanguly Berdimuhamedow sono infatti terminati con l’orchestrata salita al potere del figlio quarantenne, Serdar.

Difficile si registrino cambiamenti interni ma, con il peso della dipendenza europea dal gas russo sempre più evidente, sarebbe bene tenere d’occhio il paese.

Il Turkmenistan detiene le quarte riserve al mondo di gas naturale e proprio il nome della repubblica centro asiatica viene a volte citato come possibile supporto alle forniture azere all’Europa attraverso il gasdotto trans-adriatico. Prospettiva, va detto, per ora quasi impossibile anche solo da immaginare.

Il supporto uzbeco

L’altro gigante regionale, demografico e politico, l’Uzbekistan, si è posto all’estremo opposto del posizionamento kirghiso. Il ministro degli Esteri del paese ha infatti esplicitamente dichiarato il supporto uzbeco all’integrità territoriale dell’Ucraina auspicando una soluzione diplomatica della crisi.

Per quanto anch’essa fortemente legata alla Russia, la repubblica guidata da Shavkat Mirziyoyev ha le mani relativamente più libere rispetto al Kazakistan, non facendo parte della Csto né dello spazio commerciale comune che va sotto il nome di Unione economica eurasiatica.

Nell’immediato, l’Uzbekistan sta cercando di sfruttare la fuga di decine di migliaia di giovani professionisti russi dal regime putiniano: le autorità stanno lavorando a un visto lavorativo ad hoc e a un percorso per ottenere la residenza facilitati e pensati per i lavoratori e gli imprenditori russi (e bielorussi) del settore tecnologico.

Nonostante gli uzbechi siano quasi 35 milioni, la fame di capitale umano è particolarmente forte, così come, in maniera più ovvia, quella di investimenti.

La Cina ne approfitta

La profonda crisi economica che si staglia all’orizzonte per l’Asia centrale potrebbe consentire alla Cina di accrescere ulteriormente il proprio ruolo in una regione in cui già ha un peso economico e, in misura minore, militare, difficilmente sovrastimabili.

Pechino ha investito decine di miliardi di dollari per i suoi progetti infrastrutturali, legando a sé molto strettamente alcune delle repubbliche centroasiatiche. Il Kirghizistan e il Tagikistan, ad esempio, che hanno debiti nei confronti della Cina pari rispettivamente al 40 per cento e quasi al 50 per cento del loro debito estero complessivo.

Le probabili difficoltà nel ripagarlo potrebbero consentire a Pechino di ottenere ulteriori concessioni, economiche, militari e politiche.

La Russia, anche per ragioni storiche, rimarrà un partner imprescindibile per gli -stan dell’Asia Centrale, ma l’avventata invasione dell’Ucraina potrebbe portare Pechino sempre più in alto nella classifica degli attori più influenti nella regione.

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