Le affinità elettive – come avrebbe detto Goethe – tra i cittadini della penisola mediterranea e quelli del grande paese del Nord America attraversano un percorso plurisecolare che affonda le radici nella storia e nella cultura classica – della Grecia e, soprattutto, di Roma – per svilupparsi fino ai tempi più vicini a noi, nutrite anche da amicizie e consonanze personali tra i protagonisti della storia di entrambe le nazioni.

Si sono plasmate dapprima nei rapporti umani e culturali, poi in quelli commerciali, infine nelle relazioni politiche e diplomatiche che il nuovo grande paese americano aveva dapprima stabilito con alcuni dei nostri stati preunitari, per giungere, centosessant’anni or sono, alle piene relazioni diplomatiche tra l’Italia e gli Stati Uniti fondate su rapporti collaudati, strettamente compenetrati tra due compagini umane legate da crescenti scambi economici, da intensi contatti scientifico-culturali, da una comunità di ascendenza italiana man mano stabilitasi oltreoceano.

Mentre rammentiamo doverosamente (al netto della misera demagogia della cancel culture…) lo scopritore del Nuovo Mondo e il grande navigatore che gli ha dato il nome, non meno evidenti nel percorso che ci unisce appaiono la visibile influenza della grandezza politica di Roma e la classicità del Rinascimento italiano che hanno ispirato l’iconografia, l’architettura e persino l’etica pubblica al di là dell’Atlantico.

L’influenza del messaggio democratico

Al tempo stesso, quasi come misura della riconoscenza, dobbiamo da parte nostra ricordare l’influenza del messaggio di libertà civili e di democrazia rappresentativa che ci inviavano nel Risorgimento le grandi figure che hanno animato nel nord America l’indipendenza dalla monarchia britannica e hanno ispirato i patrioti che si battevano qui per una patria indipendente nelle sue genti libere dal dominio straniero, per un’Italia unita in uno stato, non più mera “notion géographique” come la vedeva Metternich.

Gli stretti rapporti tra l’Italia e gli Stati Uniti si collocano oggi, cruciali come in poche epoche, tra due paesi uniti da quei forti legami storici e culturali e, oggi, anche da strette e fruttuose relazioni economiche e scientifico-tecnologiche, mentre la partecipazione nell’Alleanza atlantica le accomuna nella difesa della pace e dell’indivisibile sicurezza comune in una situazione mondiale gravida di instabilità e di rischi.

Guardando ai tempi nostri, a oltre trent’anni dall’implosione dell’Urss, con la fine della Guerra fredda e del bipolarismo americano-sovietico – l’“equilibrio del terrore” come veniva chiamato – e dopo un decennio di indiscussa preminenza globale americana, troviamo infatti uno scenario internazionale variegato e profondamente instabile.

Ci appare una condizione diffusa che sollecita i nostri due stati a interrogarsi sulla missione che incombe ai loro governi – in realtà, a tutti quelli dell’occidente democratico – per applicarsi a uno sforzo che miri alla ricostruzione di un sistema di relazioni internazionali più stabili, certe ed equilibrate, specie in un periodo di generale turbamento e di incertezza sui princìpi.

Scenario tripolare

Lo scenario bipolare del mondo, divenuto multicentrico nell’assetto tra gli stati, è in realtà tripolare nella politica di potenza, protagonisti gli Stati Uniti, la Cina e la Russia.

La globalizzazione che ha reso porose le frontiere, fisiche non meno che culturali, informative o digitali e ha sollevato milioni di persone dalla miseria, si confronta oggi con la frantumazione delle relazioni internazionali in cui le potenze emergenti sono percorse sovente da pulsioni egemoniche non solo regionali, non meno di quanto accade ai governi revisionisti che cercano un ruolo e una collocazione che ne soddisfino le politiche identitarie.

Spesso quei governi tendono ad agire sulla scena internazionale piuttosto in base a sollecitazioni immediate, o a disegni di natura tattica che prescindono dalla consapevolezza della sicurezza comune. Attorno all’incerto e mutevole rapporto fra i tre protagonisti si dipana così lo scenario delle ricorrenti crisi locali che, degenerando spesso in conflitti, coinvolgono le maggiori potenze.

Il disordine internazionale in cui si trovano i governi si manifesta anzitutto nell’aver accantonato, di fatto, un criterio ordinatore delle relazioni tra gli stati come quello che si era venuto man mano configurando nel tempo, pur con tutte le controversie che li opponevano.

La crisi sistemica ha ridotto, invece, i reciproci rapporti a svolgersi in uno scenario che sembra aver abbandonato persino il principio di un rules-based international order che ha evocato ancora recentemente con nostalgia il segretario di Stato americano Antony Blinken.

In realtà, sembra venuto meno quel senso di una “comunità degli stati” che si era formato progressivamente nell’evoluzione secolare, mentre prevale in molte capitali, apertamente o meno, il ritorno a concezioni hobbesiane che sono alla base delle diverse forme degenerative odierne del nazionalismo, quelle che molti politologi collocano nella complessa nozione di “sovranismo”.

Isolazionismo

La primazia del mero interesse nazionale conduce anzitutto all’isolazionismo, fa sì che le frontiere siano sentite come muri e la sicurezza identificata soprattutto con la difesa di quelle, i rapporti economici e finanziari – e persino quelli politici e diplomatici – siano improntati a una sorta di mercantilismo transattivo misurato sui dati della bilancia commerciale, mentre i problemi globali sono guardati generalmente come preoccupazione caratteristica delle “anime belle”.

Quel che colpisce è proprio il discredito in cui sono generalmente tenute, al netto della minaccia di sanzioni o peggio, le regole di comportamento tra gli stati maturate nei secoli: di più, i solenni impegni intercorsi, i pacta, non sono più necessariamente servanda. È venuto a soffrirne così quel concetto stesso maturato in occidente in un complesso di valori che in sé racchiude anche l’dea della responsabilità comune per la convivenza civile tra gli stati e si definisce, insieme, nelle caratteristiche etiche e politiche della libertà e dei diritti che i suoi popoli hanno conquistato nei secoli, spesso a caro prezzo.

Un’altra vittima della decadenza di un “sistema” nei rapporti tra gli stati è indubbiamente il tramonto della fiducia che le nazioni tenevano a riporre nel ruolo di regolatore che la comunità delle nazioni aveva via via riconosciuto alle organizzazioni interstatali, pur con le loro note carenze e fragilità.

Persino la visione geopolitica che prevaleva tradizionalmente a Washington, alla cui lungimiranza si deve la creazione delle maggiori iniziative di collaborazione tra gli Stati nel campo politico ed economico, non meno che in quello della sicurezza – dal sistema di Bretton Woods alle Nazioni unite con le loro agenzie specializzate, dall’Oece(oggi Ocse) all’Alleanza atlantica – è stata in qualche misura vulnerata dalla strisciante contestazione dell’ordine multilaterale: basti rammentare che, già vent’anni fa, addirittura il presidente della commissione Esteri del Senato americano, l’autorevole repubblicano Jesse Helms, non aveva esitato a sostenere che le organizzazioni internazionali siano «congiure antiamericane» contestando persino che il diritto internazionale si applichi agli Stati Uniti.

Ne sono state conseguenze inevitabili l’isolazionismo, l’irrilevanza del ruolo dell’Onu, lo scetticismo verso la Nato e, infine, le divergenze con l’Europa guardata con sospetto da Donald Trump e collocata tra i «maggiori antagonisti» dell’America, tanto da indurlo a mandare in soffitta il grande progetto di partenariato con l’Unione europea (Trade and Investment Partnership Treaty).

Cina e Russia

Le altre due potenze mondiali, aperte rivali degli Stati Uniti, la Cina e la Russia, non hanno mancato di avvalersi politicamente e operativamente del progressivo disimpegno americano dal ruolo che man mano era stato riconosciuto al nostro maggiore alleato nel perseguimento dell’equilibrio mondiale.

Nel segno della resurrezione dell’Impero di Mezzo, la Cina avanza su tutti gli scacchieri del pianeta e Xi Jinping preconizza un proprio “nuovo ordine internazionale” in una polemica appena velata con Washington, mentre Putin minaccia apertamente «misure rapide, dure e asimmetriche» contro chi «minacci gli interessi russi» oltrepassando una sua non meglio precisata ma intuibile «linea rossa».

In questo scenario si trovano a operare le potenze europee, ciascuna con le proprie esigenze e pulsioni, nell’alterna speranza di pervenire a una strategia politica comune, vagheggiata più che perseguita, che sia consona alla dimensione e al peso dell’Unione nel mondo, non meno che alle storiche tradizioni dei suoi membri.

Certo, per darsi una politica estera e divenire un autentico global player, l’Europa dovrà sforzarsi – anche a costo di riforme strutturali – di superare la paralizzante disomogeneità politica, interna e talora persino esterna, che sembra essere conseguenza di taluni incauti allargamenti cui non ha corrisposto, come era invece previsto, l’“approfondimento”, il rafforzamento cioè delle strutture decisionali dell’Unione verso forme di integrazione che si ispirino alla fattispecie federale.

Lo stesso sembra doversi dire della “difesa europea”. Non bastano gli aspetti, soprattutto formali, della sua rappresentanza internazionale, la partecipazione talora riluttante a varie missioni o sanzioni, gli appelli alla misteriosa “autonomia strategica” per collocare l’Unione al livello delle tre potenze protagoniste dello scenario mondiale per svolgere un ruolo globale corrispondente.

Un vento nuovo spira adesso a Washington con la Presidenza Biden. «America is back, the transatlantic alliance is back» – come ha dichiarato alla Conferenza Wehrkunde – sembra esprimere la visione geopolitica del neo-eletto il quale non ha esitato a impegnarsi per la consultazione con l’Europa «to earn back our position of trusted leadership» ravvivando al tempo stesso il tradizionale rapporto politico-strategico con i paesi della regione Asia-Pacifico.

La consonanza tra l’Europa e gli Stati Uniti torna ad assicurare quindi un livello di concertazione politica che consenta di far fronte alle sfide che il caos internazionale presente pone ai paesi di un ritrovato occidente.

La presenza di Joe Biden al Consiglio Europeo del 24-26 marzo – il mezzo telematico ha certo facilitato la sua partecipazione, ma non ne diminuisce la portata politica – prefigura quindi uno scenario degli equilibri globali in cui l’Europa possa riprendere il posto che ha occupato nel rapporto strategico transatlantico.

La risposta effettiva a un’apertura così esplicita incombe all’Unione che, a sua volta, non deve esitare a riprendere e approfondire un proprio disegno comune che non può prescindere, tuttavia, dalle riforme interne.

La promozione del ruolo internazionale della moneta unica, l’unione bancaria e, speriamo presto, quella fiscale, l’affermazione del suo patrimonio valoriale e, non ultimo, il rafforzamento della struttura comunitaria con il superamento o, almeno, la marginalizzazione dell’unanimità nelle decisioni, sono le principali ipotesi di iniziative politiche e diplomatiche suscettibili di creare realistiche premesse per un rapporto efficace con gli Stati Uniti che consolidi anche in America il primato dell’alleanza euro-americana.

Collocata in un teatro geopolitico solcato da instabilità ricorrenti – dalla sponda meridionale del Mediterraneo alla regione saheliana, dalle ambizioni della Turchia e della Russia alla regione balcanica, dalla fascia orientale di quel mare al vicino e al medio oriente – l’Italia non può prescindere per la propria sicurezza e per un equilibrio stabile e garantito da un disegno strategico che comporti la stretta collaborazione tra l’Europa e gli Stati Uniti.

Questa è, del resto, l’ispirazione tradizionale della politica estera di Roma e oggi incontra una favorevole congiuntura che questo governo sembra avere l’autorevolezza per metterla a profitto.

In questo senso, un’energica azione propositiva europea dell’Italia mirata a un ruolo politico globale per l’Unione, ben lontano dalle illusioni neo-golliste, appartiene al contesto del rilancio del rapporto transatlantico e, con quello, alla ricostituzione di quell’ordine internazionale liberale di concezione occidentale.

Non è priva di significato la circostanza che si celebri l’anniversario dello stabilimento delle relazioni diplomatiche tra l’Italia e gli Stati Uniti proprio con un’Amministrazione che apertamente esprime l’intendimento di restaurare il primato strategico della concertazione politica transatlantica nella migliore tradizione americana, quella di esercitare un ruolo traente nei rapporti tra le nazioni inteso alla formazione di un sistema di equilibrio globale.

Il governo italiano, dal canto suo, non aveva mancato di riaffermare, già nel programma, con l’autorità del presidente Draghi l’impegno europeista e atlantico che è parte integrante della nostra storia repubblicana. Roma condivide apertamente l’obiettivo di un rinnovato sistema nei rapporti tra le nazioni, sorretto dalla responsabilità per la sicurezza e dall’impegno per la pace e la stabilità, non meno che dal sistema di valori che ha caratterizzato l’occidente nelle sue tradizioni ed è il fondamento del suo riconosciuto soft power nel mondo.

Mentre lo stretto rapporto tra Roma e Washington trova oggi nuovo impulso, fiducia e ispirazione da ambo le parti aprendosi a più stretta concertazione politica globale al più alto livello bilaterale come nella sede alleata, obiettivo preminente del nostro interesse sembra dover essere quello di assumere un ruolo propositivo, compreso l’intendimento di spronare l’Unione a darsi alfine una vera politica estera e di sicurezza superando remore e ambiguità purtroppo stratificate nella disomogeneità e paralizzate dall’unanimità che regge le decisioni importanti.

Forse sarà mediante la formazione di “cooperazioni rafforzate” strutturate tra i suoi maggiori paesi membri like-minded che l’Europa potrà assumere assieme agli Stati Uniti un ruolo di global player per l’Unione nel contesto politico della concertazione nell’Alleanza.

Ferdinando Salleo è un dipomatico, economista e scrittore. È stato segretario generale del ministero degli Affari esteri dal 1994 al 1995. Questo saggio sulle relazioni transatlantiche è stato scritto per il Centro Studi Americani

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