Chi non crede al decoupling, alla separazione tra l’economia cinese e quella statunitense, dovrebbe farsi un giro a Danville, in Virginia. Nella città sul fiume Dan – 41mila abitanti, il 22,4 per cento classificati come “poveri” – il governatore dello stato, Glenn Youngkin, il 17 gennaio scorso ha sbattuto la porta in faccia a Ford, che era pronta a dare lavoro a 2.500 persone.

Il motivo? All’investimento (3,5 miliardi di dollari) avrebbe contribuito la cinese Catl, leader mondiale nella produzione di batterie, che il repubblicano Youngkin ha bollato come «una copertura per il dittatoriale partito comunista cinese, che ha un unico obiettivo: il dominio globale».

Accreditarsi come falchi anti Cina può servire come trampolino elettorale in un paese dove – secondo il Pew Research Center – gli abitanti che hanno una “opinione negativa” della Cina sono in costante aumento, dal 35 per cento del 2004 all’82 per cento nel 2021, dopo l’impennata nel 2018, quando Donald Trump scatenò la guerra dei dazi.

L’ex presidente non si è perso l’occasione di sfottere sui social «Young Kin, che suona più cinese», ricordando che il suo possibile sfidante alle primarie del grand old party è stato direttore esecutivo del Carlyle Group, società di investimento con ingenti interessi in Cina.

Quelli che ritengono che i legami tra la Cina e l’America siano indissolubili l’8 febbraio scorso hanno accolto come una definitiva conferma dell’inoppugnabilità della loro tesi il record del commercio bilaterale: 690 miliardi di dollari nel 2022, l’anno dello scontro seguito alla visita a Taiwan di Nancy Pelosi.

Un dato giudicato “fuorviante” dal Peterson Institute of International Economics (Piie), secondo cui le due economie stanno diventando meno interdipendenti, perché «entrambe hanno lo stesso timore: che l’altra parte possa improvvisamente utilizzare i flussi commerciali come un’arma, riducendo le importazioni o le esportazioni in nome della sicurezza».

L’analisi del Piie rileva che l’export Usa nel mercato cinese sta perdendo terreno rispetto ai concorrenti stranieri; che alcuni protagonisti del passato (come l’automotive e Boeing) sono quasi spariti; le restrizioni sempre più rigide alla vendita di semiconduttori; il crollo del settore dei servizi; gli scambi energetici che si sono divaricati: dagli Usa in Europa da un lato e, dall’altro, dalla Russia verso la Cina.

Un interscambio disuguale

Insomma, seppur quantitativamente solo parziale, l’allontanamento tra le due economie sarebbe qualitativamente già rilevante.

Del resto, mentre le esportazioni cinesi verso gli Usa sono in maggioranza a basso valore aggiunto (facilmente sostituibili), come i tessuti che, tra gli anni Novanta e Duemila, hanno costretto alla chiusura le fabbriche di abbigliamento sul fiume Dan, il flusso che viaggia in direzione opposta include “tecnologie chiave”, estremamente difficili da rimpiazzare.

Inoltre, gli Stati Uniti – anche grazie alla loro influenza sui partner di Pechino – hanno il potere di indebolire la posizione della Cina nelle filiere globali.

Ad esempio, Washington ha appena convinto i governi olandese e nipponico a limitare l’accesso della Cina ai macchinari per la manifattura dei semiconduttori prodotti dalle loro multinazionali.

Nel suo recente viaggio in Europa, il capo della diplomazia del partito comunista, Wang Yi, ha stigmatizzato il “decoupling”, invitando i governi dell’Unione a non seguire gli americani.

Anche gli investimenti bilaterali Usa-Cina segnalano un deciso raffreddamento: dal picco del 2016 (60 miliardi di dollari), sono precipitati da 50 miliardi nel 2017 a 20 miliardi l’anno successivo, ulteriormente ridottisi a 19 miliardi nel 2019 e a 16 miliardi nel 2020 (Rhodium Group).

Le ripercussioni dei lockdown cinesi sulle catene globali di fornitura durante la pandemia e l’accentuata rivalità geopolitica vengono comunemente indicati come i fattori che stanno determinando l’allontanamento tra le prime due economie del pianeta.

Ma più che la contrapposizione tra “democrazia” e “autoritarismo”, ciò che sta spingendo verso la fine di quella che lo storico Niall Ferguson definì “Chimerica” – una sorta di simbiosi tra Cina e Stati Uniti – sono i rispettivi sistemi economici, non più complementari.

E la competizione tra Pechino e Washington, in assenza di una forte crescita della domanda interna in Cina, è destinata a proiettarsi ancora di più sui mercati globali.

Clinton capitola

Quello a cui ci siamo abituati era un matrimonio d’interesse, celebrato nei decenni ruggenti della globalizzazione neoliberista.

A partire dall’inizio degli anni Novanta, sotto la guida del vice premier Zhu Rongji, l’economia della Repubblica popolare cinese venne rivoluzionata al fine di attrarre in massa capitali stranieri, mentre nelle aree costiere spuntarono come funghi fabbriche destinate a produrre per i mercati esteri.

Il deprezzamento del 30 per cento dello yuan (nel 1994) e lo smantellamento di migliaia di compagnie controllate dai governi locali contribuirono a liberare il dinamismo dell’imprenditoria privata cinese.

Affinché questa nuova, gigantesca capacità produttiva trovasse uno sbocco nel mercato americano, fu necessario rimuovere l’ostacolo del rinnovo (annuale) dello status di “most favored nation” nell’ambito del trattato internazionale Gatt.

Appena insediato, Bill Clinton era deciso a negarlo alla Cina, per utilizzarlo come grimaldello per difendere i diritti umani, e perché incalzato dai sindacati, che reclamavano protezione dalla concorrenza della manodopera cinese a basso costo.

Ma Clinton fu rapidamente costretto a fare marcia indietro dalle multinazionali e dai mercati finanziari, che avevano fiutato gli affari che avrebbe generato la liberalizzazione degli scambi bilaterali.

Tra le più attive nell’azione di lobbying sulla Casa Bianca si segnalarono Boeing, AT&T, General Motors, Nike, Motorola, Exxon.

Al momento dell’accesso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, nel 2001, quello statunitense rappresentava il maggiore mercato d’esportazione dei manufatti cinesi e stava prendendo forma “Chimerica”.

Come ha ricordato Ho-fung Hung in Clash of Empires - From “Chimerica” to the “New Cold War”, «il mercato di consumatori statunitensi e la politica di Washington di integrare la Cina nel sistema globale di libero scambio innescò l’ascesa economica della Cina trainata dalle esportazioni».

Il docente della Johns Hopkins University ha sottolineato che «le esportazioni cinesi a basso costo favorirono un boom dei consumi negli Stati Uniti, mentre il riciclaggio da parte della Cina dei suoi guadagni in dollari nei buoni del tesoro statunitense ha aiutato a finanziare il crescente deficit fiscale dell’America. E ha anche tenuto basso il tasso di interesse, favorendo la finanziarizzazione e la prosperità dell’economia statunitense guidata dalla finanza».

Caterpillar made in China

Tuttavia questo processo non ha dato luogo alle riforme di mercato auspicate dagli Stati Uniti e dai grandi paesi europei. L’apertura della Cina si è al contrario accompagnata a un rafforzamento delle aziende di stato, che sono state ristrutturate e rese più efficienti e competitive, mentre Xi Jinping ha rafforzato il controllo del partito comunista anche su quelle private.

A distanza di trent’anni, molte delle compagnie Usa che si batterono per l’integrazione tra le due economie lamentano il furto di proprietà intellettuale e restrizioni all’accesso a un mercato dove le protagoniste assolute stanno diventando le società cinesi.

Ad esempio, Caterpillar passò dall’opposizione al sostegno della battaglia del Congresso per designare la Cina come “manipolatrice valutaria”, mentre il mercato cinese dei macchinari per costruzioni, in mano per il 74 per cento ad aziende straniere nel 2009, dieci anni più tardi era diventato appannaggio per il 62 per cento di quelle cinesi.

Le stesse associazioni che fino a qualche anno fa sostenevano l’alleanza con la Cina ora la rigettano senza mezzi termini.

In un documento pubblicato il mese scorso la U.S. Chamber of Commerce ha sostenuto la decisione della Camera dei rappresentanti di istituire un comitato speciale sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e la Cina, perché «è fondamentale che riteniamo la Cina responsabile delle sue pratiche commerciali sleali, dell’uso della coercizione economica e della sfida essenziale alla sicurezza e ai valori nazionali americani».

Secondo AmCham China, per la prima volta negli ultimi 25 anni i suoi iscritti non considerano la Cina tra le prime tre destinazioni prioritarie d’investimento.

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